Star schierate: attivismo o attivismo performativo

Da Tematiche di genere.
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Da Nino Manfredi a Fedez, l’attivismo delle celeb

Star “schierate”

A guardare indietro, ogni epoca ha avuto personaggi in qualche modo “famosi” che si sono esposti su temi precisi, chirurgici, che non fossero le generiche appartenenze di partito o le visioni sistemiche del mondo. Dopo gli anni Sessanta in America alcuni sportivi diventano anche icone politiche.

In Italia, in assenza del flusso informativo continuo dei social, il dibattito si concentra in occasione di eventi specifici come i referendum su determinati diritti. Le celebrity venivano ospitate all’interno di piani di comunicazione di altri (partiti o comitati per i referendum).

I più attivi nel reclutamento erano i Radicali. Nel 1974 per esempio si tiene il referendum per abrogare il divorzio. Il comitato per il No (quindi favorevole a mantenere il divorzio) realizza una serie di spot tra cui uno con Nino Manfredi che esprime una critica alla chiesa che poteva causargli qualche rischio professionale, vista l’influenza della Chiesa nel 1974.

In un Ted Talk avevo provato a sintetizzare le domande che mi faccio ogni volta per valutare il valore intellettuale di un creator che mi parla.

Il creator che mi parla d’attualità è aperto al confronto?

La più importante, forse, è se è aperto al confronto: se ascolta, approfondisce e soprattutto è in grado di espormi le tesi di chi non la pensa come lui. Definire “omofobo” chi critica una certa legge non significa alimentare il dibattito, significa soffocarlo. Intervistare in una live chi la pensa esattamente come te non significa confrontarsi, significa spalleggiarsi. Definirsi “offesi” non significa automaticamente avere ragione. Limitarci a delegittimare chi non la pensa come noi, o a definirci offesi dalla sua opinione, è strategia buona per l’engagement, ma non per la nostra crescita. Perché una cosa che non si contamina non rimane pura, diventa sterile. Diventa fascismo digitale, pronto a scagliarsi contro chi la pensa diversamente.

L’abbiamo visto anche in Italia tra il 2020 e il 2021 con il disegno di legge Zan, che voleva introdurre in Italia il reato di omotransfobia. Una misura di buon senso già presente in altri paesi si è trasformata in una legge manifesto per entrambe le parti: da una parte demonizzata perché avrebbe aperto alle supposte teorie del gender; dall’altra mitizzata perché avrebbe introdotto diritti sacrosanti che altrimenti non esisterebbero. In rete la protesta è stata guidata da star italiane. C’era chi si faceva il selfie con la scritta “DdlZan” sulla mano. Chi come Fedez attaccava frontalmente i parlamentari della Lega che ostruivano il disegno di legge. Il dibattito si è polarizzato. Le parti irrigidite. Nessuna delle due voleva cedere di un millimetro, perché cedere di un millimetro si pensava significasse tradire la propria identità. Il Ddl non è stato più considerato una piattaforma da modificare, e magari anche arricchire, tramite il sano dibattito parlamentare. È diventato un manifesto identitario intoccabile: da bocciare così com’era per alcuni, e da approvare così com’era per altri. Come sempre quando non c’è più margine per dibattito e contenuti, di concreto sono rimasti solo la pura tattica politica, i tecnicismi, le trame di partito. Prima della fine del 2021 il Ddl è stato bocciato in Senato. A proposito di confronto, personalmente una delle interviste più interessanti che ho fatto durante la pandemia è stata proprio a Simone Pillon, senatore della Lega, il più acceso oppositore al Ddl Zan. Non perché fossi d’accordo con lui, ma proprio perché in gran parte non lo ero.

Qualcuno è in disaccordo con quello che sta dicendo?

Quando sento qualcuno parlare di attualità o lo vedo fare attivismo, mi chiedo sempre se stia dicendo qualcosa con cui qualcuno può esplicitamente essere in disaccordo. Se si limita a dire che è "contro il razzismo", "per l’ambiente", o "per l’empowerment", sta solo riproponendomi una versione un po’ più patinata del classico "Voglio la pace nel mondo" . Prendiamo LeBron James. Uno con una storia da film, cresciuto in un ghetto e diventato uno dei migliori giocatori di basket, oltre che punto di riferimento politico sui temi del razzismo per milioni di giovani.

LeBron è uno dei più attivi a schierarsi contro le politiche di Donald Trump e ad appoggiare il movimento Black Lives Matter, scendendo più volte in campo con la maglietta recante messaggi di solidarietà. «C’è stato un tempo in cui gli atleti non avevano il coraggio di parlare di attualità» dice. « Noi non rimarremo zitti a palleggiare.» Ma c’è un momento in cui LeBron invita un’altra persona a rimanere zitta. Un messaggio tutto sommato innocuo, ma non per il Partito comunista cinese.

Il consolato cinese di Houston denuncia il povero Morey. La Nike, la stessa Nike che consigliava di «credere in qualcosa anche a costo di sacrificare tutto» sponsorizzando Colin Kaepernick che si batte contro il razzismo, ritira le magliette dei Rockets dai suoi negozi in Cina. LeBron James, campione da sempre a supporto della giustizia sociale, attivista Black Lives Matter e difensore della libertà d’espressione degli sportivi, si trova in tour in Cina nel momento della polemica. « Abbiamo la libertà di parola, ma ci sono cose negative che ne possono derivare».

Un discorso che non ha moltissimo senso, considerato il tweet di Morey , e considerando la figura di LeBron. Al di là di come la si pensi, il punto è quello del rischio e del coraggio. È un fatto che LeBron possa criticare apertamente Donald Trump ed entrare in campo con le magliette a favore del Black Lives Matter senza rischiare concretamente niente, dal punto di vista fisico, spirituale o soprattutto finanziario . Ma è anche un fatto che, criticando la politica del regime cinese nei confronti di Hong Kong, lui e l’intera Nba possano perdere preziose opportunità di business in Cina.

A un certo punto ha detto che lui fa quello che fa – ovvero attaccare politici di destra e schierarsi sul Ddl Zan – «in barba alle conseguenze» che può subire. Quando gli ho chiesto di circoscrivermi e quantificarmi queste conseguenze, per fortuna si è limitato a parlare di qualche articolo di giornale a lui ostile. Per fortuna siamo in un paese in cui schierarsi a favore di determinati temi non comporta conseguenze negative.

Ok, ma cosa sta facendo?

Terza domanda per valutare la mia personalissima attendibilità su un attivista: cosa sta facendo quel creator per definirsi attivista? Perché sui social l’attivismo non contempla più necessariamente quello che per secoli ha avuto come requisito: un’attività. Nelle sue versioni di performattivismo, l’attivismo basta a sé come lifestyle, come autodefinizione in bio, come autonarrazione identitaria. Sono un attivista green perché fotografo la mia borraccia. Sono femminista perché nelle mie stories attacco meglio degli altri gli accusati di molestie. Adoro e considero fondamentali i simboli. Ma sono fondamentali perché sono appunto simbolici di qualcosa di concreto a loro sottostante . Se rimangono l’unico obiettivo di campagne social che in essi si esauriscono, li considero buoni soltanto per le cover dei cellulari e per fare engagement.

Prendiamo l’atto di inginocchiarsi per protestare contro il razzismo. Nasce nel 2016 , ma ritorna virale nel 2020, dopo l’omicidio di George Floyd: ricorda la posizione del poliziotto Derek Chauvin e diventa il simbolo del Black Lives Matter. La Nazionale prima dice che permetterà l’inginocchiamento ai singoli giocatori. Poi dice che si inginocchierà tutta se lo farà anche l’altra squadra. Una soluzione a metà tra un congresso dei democristiani e un film dei Vanzina. Ma forse inginocchiarsi non è né un pregio né un difetto di per sé. È un gesto, un simbolo. E quindi è simbolico, appunto, di una lotta attiva e fattuale, che può consistere nel fare nomi, nello scagliarsi contro qualche obiettivo in modo specifico, rischiando concretamente qualcosa, aprendo un dibattito, trovando dei nemici. Va benissimo inginocchiarsi per il Black Lives Matter e contro il razzismo americano.

La differenza tra attivismo e performattivismo

È un modo elegante come un altro per posizionarsi, che grazie ai social, al fenomeno della cassa di risonanza e alle più immediate opportunità di monetizzazione è cresciuto più di altri. Qui l’attivismo – un tempo azione collettiva – viene più naturale come momento individuale. Sì, certo, ci sono le catene, gli hashtag e le challenge, ma è un fatto che i social si prestino ad azioni riprese individualmente. Perché con i social, la mostra di virtù è direttamente monetizzabile.

« La community segue in virtù dell’identità del seguìto, e questa identità non può contenere troppe incongruenze. Coi social ci siamo chiusi a chiave nella stanza della nostra identità sulle cui pareti si specchia il nostro volto mentre il pubblico applaude. Siamo un milione di cose diverse, e l’identificazione coatta con un solo elemento è una gabbia dalla quale scappare anche quando ci fa guadagnare migliaia di euro, perché nel momento in cui le persone diventano brand permettersi di cambiare idea, di farsi attraversare dalle cose che si vedono o si pensano, è impossibile. Sui social bisogna essere coerenti. »

Come se la conduzione di determinate battaglie – in alcuni casi – si riducesse semplicemente a mostrare la nostra identità. Identità di indignati, identità di vittime, identità di buoni. «Per essere ammessi al gioco bisogna cedere brandelli di intimità in cambio di fama e follower.» E i brand stanno iniziando a regolarsi di conseguenza.