Il potere dei social nel mondo reale: Genova 2001, rivolte arabe, occupy wall strett e Black Lives Matter

Da Tematiche di genere.
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I no-global e l’autonarrazione dei movimenti

Fatti_del_G8_di_Genova Diaz, pestaggi, tre giorni.

C’erano i black bloc, i giornalisti, gli uomini più potenti del mondo, e i poliziotti.


movimento no-global

  • era un miscuglio di Ong, associazioni e singoli individui che in qualche modo erano contrari alla globalizzazione.
  • è stato criticato per il messaggio vago: parlava di un «altro mondo possibile», senza indicare quale.

Due mesi dopo arrivò qualcos’altro di cui parlare:

  • due aerei fecero cadere le torri del World Trade Center a New York
  • l’America invase prima l’Afghanistan e poi l’Iraq
  • milioni di manifestanti contro le multinazionali iniziarono a mescolarsi a milioni di manifestanti contro la politica militare di George W. Bush.

Il movimento si era diluito. O forse si era allargato.

L’autonarrazione dei movimenti.

Le rivolte arabe e i social

Nel 2008 e nel 2009 in Tunisia scoppiano le proteste contro la corruzione tra i funzionari governativi della città di Gafsa. Viene chiamato l'esercito, i capi delle manifestazioni vengono arrestati e – quando i parenti degli arrestati iniziano uno sciopero della fame – censurano la vicenda su tutti i media locali e nazionali. Due anni dopo, la storia si ripete, questa volta a cento chilometri da Gafsa. In poche ore, le strade della città dove la disoccupazione supera il 30% si riempiono di manifestanti. Coloro che usavano i social non erano sempre quelli che andavano in piazza a protestare, ma hanno permesso di aggirare la censura dei regimi, di portare nelle nostre stanze i video dei pestaggi e le foto delle torture, mobilitando l’opinione pubblica occidentale. Durante le primavere, la gran parte dei governi si sono limitati a rallentare la velocità della connessione ma pochissimi si azzardano a bloccare i social. È difficile privare improvvisamente i cittadini di un social che usano per comunicare con i familiari, per corteggiarsi tra di loro. Il rischio di proteste trasversali sarebbe fortissimo.

Occupy, il movimento che si fa hashtag

2011 ragazzi occidentali proteste grazie al 4G. 700 ragazzi usa si ritrovano vicino al famoso Toro di Wall Street a Manhattan. Marciano contro le ingiustizie sociali create dal sistema finanziario, in duecento decidono di piantare le tende nel parco e di passare la notte lì. Occupazione pubblica di due mesi. I ragazzi diventano un movimento: #OccupyWallStreet. Hanno hashtag, uno slogan «Noi siamo il 99%», una loro estetica riconoscibile e una potenza social micidiale grazie al 4G che permette di inviare file dal cellulare molto più facilmente. Il movimento è il primo a filmarsi in diretta. Uno dei momenti che fa esplodere il movimento è proprio un video in cui un poliziotto spruzza spray urticante contro dei manifestanti inermi a terra.

Quello che manca al movimento sono un leader formale e una serie di proposte. «Tre settimane dopo l’occupazione, il gruppo passava più tempo a discutere le proprie procedure che a fare altro».

Presto Occupy si ritrova senza proposte concrete.

  • Ho una visione e un obiettivo preciso, misurabile e difficilmente equivocabile.
  • Poi inizio a ragionare sul cosa:
  • Infine ragiono sul come
  • Quando un movimento non ha una proposta o un obiettivo di protesta sufficientemente preciso e concreto, spesso rischia purtroppo di rimanere un “momento”. Ovvero, un momento di protesta, teso a parlare più di se stesso che dell’oggetto della sua protesta.

Nel suo articolo “How Occupy Wall Street spawned a decade of protest, politics, and social media”, scritto una decina d’anni dopo l’inizio del movimento, il giornalista Sean Captain – che ha seguito e raccontato Occupy fin dal primo giorno – è stato lapidario:

«A corto di leadership e di richieste, l’unica cosa che ha tenuto uniti gli occupanti di Zuccotti Park è stato lo sforzo di tenere occupato lo stesso parco. E una volta che la violenza della polizia è aumentata, Occupy è diventata sempre più una protesta per il diritto stesso di protestare».

È stato un movimento inutile? Tutt’altro.

  • Occupy ha creato un nuovo vocabolo politico e ha rimesso al centro della discussione statunitense la disuguaglianza. Un tema destinato a durare, cavalcato da Donald Trump a destra – che ha scatenato gli istinti della working class contro “l’élite” della Casa Bianca – e da Joe Biden a sinistra, con i suoi fondi da trilioni di dollari da investire in servizi sociali e lotta al climate change.
  • Ha introdotto un nuovo tipo di protesta negli Stati Uniti, basata sulla creazione di luoghi e momenti pubblici di discussione collettiva di temi economici.
  • È stato il primo vero movimento occidentale che ha usato in modo massiccio i social.
  • E ha reso popolare l’idea dell’organizzazione e della creazione online di un movimento attraverso l’uso degli hashtag.
  • In definitiva Occupy ha ispirato e coltivato una generazione di nuovi attivisti, che hanno dato linfa a movimenti già esistenti o sono andati a creare nuovi movimenti.
  • Tra essi, quello che «The New York Times» ha definito «il più grande di tutta la storia degli Stati Uniti»: il Black Lives Matter.

Il Black Lives Matter, e quella scala della partecipazione

La prima volta che l’hashtag #BlackLivesMatter appare luglio 2013. George Zimmerman, accusato dell’omicidio di Trayvon Martin, diciassettenne nero. Febbraio, verso le sette di sera, Trayvon sta camminando per una strada di Sanford, cittadina della Florida. George Zimmerman, ispanoamericano, è un vigilante volontario delle ronde di quartiere.

Per l’accusa, Zimmerman ha ucciso il ragazzo esclusivamente su una sua deduzione personale e dopo aver cercato lo scontro. Per la difesa, Zimmerman è stato assalito e sbattuto a terra e si è difeso aprendo il fuoco. Lo stesso «New York Times» scriverà che l’accusa non è riuscita a trovare nessuna prova convincente, ma ha basato la sua tesi sulla figura e la personalità di Zimmerman, rappresentato come un uomo pieno di rancore e odio. È un fatto, concluderanno i giudici, che non sono stati provati né l’intento di Zimmerman di uccidere il ragazzo né il movente razziale da parte dell’uomo.

Quando questa non arriva, per le strade e sui social scoppia l’indignazione. Invita tutti a unirsi nella lotta, perché «black lives matter». Per James Lance Taylor, professore di Politica all’università di San Francisco e autore di Black Nationalism in the United States, è lo slogan più potente dai tempi di Black Power, un ombrello per tutte le campagne social contro la povertà, la disuguaglianza, l’assistenza sanitaria, il sistema carcerario e tanto altro.

Le tre cofondatrici decidono di rendere #BlackLivesMatter decentralizzato e spacchettato in trenta "filiali" in giro per l’America. Nell’anno successivo, #BlackLivesMatter diventerà uno dei marchi più riconoscibili al mondo.

Il vecchio e il nuovo potere

Jeremy Heimans ed Henry Timms nel loro saggio New Power spiegano che nell’epoca dei social non vince chi accumula, ma chi sa sfruttare al meglio gli strumenti della rete. È detenuto da molti, aperto, partecipativo, paritario e tende – anziché all’accumulo – alla circolazione. Il nuovo potere, spiegano, si fonda sull’autogestione anziché sul managerialismo, sulla collaborazione anziché sulla concorrenza, sull’etica del "fai-da-te" anziché sulla competenza specializzata, e sull’adesione a breve termine anziché su quella a lungo termine. Oggi, grazie all’ubiquità dei social, possiamo riunirci e organizzarci superando ogni confine.

Le barriere della partecipazione si abbassano. L’attivismo del like rischia di essere soltanto la versione più patinata del "Condividi se hai un cuore" apposto sulle foto dei bambini denutriti che ogni tanto vediamo ancora su Facebook. Malcolm Gladwell sul «New Yorker» ha parlato di "legami deboli" tra partecipanti e movimenti nati sui social, contrapposti ai legami forti dei movimenti che si concretizzano nella vita fisica. Se prima dei social la distinzione era quasi duale , ora il sistema di partecipazione è più fluido, strutturato secondo una scala di coinvolgimento.

«Black Lives Matter», prosegue Gladwell, «ha messo in piedi il movimento per la giustizia razziale più efficace dai tempi del movimento per i diritti civili, sfruttando una combinazione» di "legami deboli" e azioni più impegnative a livelli più alti della scala della partecipazione.