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==La “molestia” che non raccontai== Personalmente non mi reputo affatto migliore. Moltissime volte avrò infranto regole di buon senso per inseguire clic o pezzi “facili”. Una volta però l’ho imbroccata. Molti anni fa, finita un’intervista, un ragazzo di Roma che chiameremo Marco mi raccontò questa cosa qui: «Per lavoro sono stato due giorni interi con Kevin Spacey. Non mi era mai capitato di rifiutare così tante avance...». La battuta cadde lì, eravamo off the record. Quattro anni dopo, in pieno #MeToo, quando Spacey finì su tutte le prime pagine dei giornali del mondo per accuse (poi cadute) di molestie, richiamai quel ragazzo. Era disposto a parlare, con nome e cognome, confermando e dettagliando quel racconto. «Dopo due giorni insieme eravamo a pranzo con altre due persone» mi racconta. «Kevin Spacey era di fianco a me. A un certo punto mise la sua mano sulla mia gamba.» Pensai di avere uno scoop mondiale. «Parla un italiano: “Anch’io molestato da Kevin Spacey”.» Già pregustavo la mia gloria e la notizia ripresa in tutto il mondo. Finita l’eccitazione, assieme al mio capo ci facemmo qualche domanda. Ci sono i presupposti giuridici per una molestia, uno stupro, una violenza? Il ragazzo sarebbe pronto a denunciarlo? Come ha reagito Spacey dopo il suo rifiuto? «Bene, si fece una risata e ritirò la mano. Era un bambinone allegro» disse Marco dopo che lo richiamai. Alla fine decidemmo che no: quel racconto, per quanto gustoso, non rappresentava una notizia o una violenza e non andava pubblicato (mi permetto di riportarlo qui perché adesso non rivela nulla di nuovo rispetto alla sessualità di Spacey e non è affatto diffamante). Avvisai anche Marco, che capì e condivise la scelta (cosa non scontata, in quei giorni). Due giorni dopo la mia decisione, su tutti i giornali del mondo comparve l’“accusa” via Twitter di un attore messicano: «Anch’io molestato da Kevin Spacey. Ha tentato di palpeggiarmi». Nessun approfondimento, nessuna verifica, nessuna denuncia. Solo un post Facebook dell’attore. E, qualche minuto dopo, migliaia di titoli di giornali che lo riprendevano. Ben '''due anni dopo il #MeToo, sono iniziati gli esami di coscienza del giornalismo'''. «The New York Times» ha messo in dubbio il lavoro di Ronan Farrow (giornalista figlio di Mia Farrow che ha costruito la prima inchiesta contro Harvey Weinstein), adombrando una sciatteria giornalistica nella verifica dei racconti. E, assieme ad altre testate come «The Washington Post», si è approcciato in modo diverso alle nuove denunce arrivate. Come quelle fatte da Tara Reade nei confronti dell’allora candidato alla presidenza Joe Biden. Ex assistente di Biden negli anni Novanta, prima delle elezioni 2020 la Reade accusa il futuro presidente di stupro. Nella primavera del 1993, racconta, lui la spinse contro un muro, le mise la mano sotto la gonna e la penetrò con un dito. Il caso è delicatissimo. La Fox, tv di orientamento repubblicano, inizia a cavalcarlo. La Cnn decide di ignorarlo. «The New York Times» sceglie invece di approfondirlo con un’inchiesta a quattro mani. I due reporter fanno quel lavoro di ricerca di altre fonti e contestualizzazioni. Nell’ordine: intervistano Tara Reade più volte e in giorni diversi; cercano altre fonti e documenti che corroborino il suo racconto; parlano con più di venti persone che a quel tempo hanno lavorato per Biden e/o hanno conosciuto la Reade; consultano i legali della Reade; ricontattano sette donne che in passato hanno già criticato i comportamenti di Biden, definiti come «inappropriati». Le loro conclusioni vengono raccolte in un’inchiesta dettagliatissima. I reporter spiegano che la donna ha fatto denuncia alla polizia di Washington, ma solo «per proteggersi». Sottolineano che «la signora Reade non riesce a ricordare il giorno, l’orario o il posto esatto in cui sarebbe avvenuto lo stupro». Dicono che molte frasi della donna non sono supportate da documenti che pure dovrebbero esserci, ma proprio non si trovano. Intervistano altre persone che smentiscono alcuni racconti della donna. E alla fine dell’inchiesta scrivono: «Il “Times” non ha trovato alcun disegno di sexual misconduct», cattivo comportamento sessuale, «da parte di Mr. Biden». Dettaglio dedicato proprio a chiunque fosse pronto a urlare al maschilismo nascosto dei giornalisti del «New York Times»: a condurre l’inchiesta sono state due donne. In Uscita di sicurezza di Ignazio Silone, un bambino racconta di quando vide un detenuto portato via dalle guardie. Era «un piccolo uomo cencioso e scalzo, ammanettato da due carabinieri...» che «procedeva a balzelloni nella strada». «Guarda com’è buffo» dice il bambino al padre. Più tardi, in privato, il padre lo fissò severamente e lo tirò per un orecchio. «Non l’avevo mai visto così malcontento di me.»<blockquote>«Cosa ho fatto di male?» gli chiesi stropicciandomi l’orecchio indolorito. «Non si deride un detenuto, mai.» «Perché no?.» «Perché non può difendersi. E poi perché forse è innocente. In ogni caso perché è un infelice.»</blockquote>Eccolo qua, il principio da ricordare, anche quando il detenuto è soltanto il linciato del giorno sui social. Perché la violazione di questi tre principi rende sempre più terrificanti i social: da luogo in cui andavamo per raccontare i nostri segreti a luogo in cui siamo terrorizzati di raccontare qualsiasi cosa. Scegliendo il silenzio. Arrendendoci all’unica forma peggiore della censura stessa: l’autocensura. __NOINDICE__ [[Categoria:Cancel Culture]]
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