Colpevoli fino a prova contraria

Da Tematiche di genere.
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Colpevoli fino a prova contraria

Come ho raccontato nel primo capitolo, uno dei momenti in cui il principio di innocenza sui social è stato più dimenticato, facendo da apripista verso altre gogne negli anni successivi, è stato proprio a cavallo tra il 2017 e il 2018. È come se in pieno #MeToo, molte testate e giornalisti avessero deciso di abbandonare o quantomeno smorzare tre di quelle basilari regole deontologiche della nostra professione: la verifica di un racconto, l’opportunità di replica della controparte, la presunzione di innocenza.

Ricordate Fausto Brizzi? Regista italiano tra i più famosi, divenne protagonista di una serie di servizi delle Iene. Ogni settimana, quasi tutte col volto coperto, alcune ragazze denunciavano di essere state molestate da un misterioso regista italiano, che dopo uno stillicidio di particolari (uno a settimana per risalire alla sua identità) venne svelato in Brizzi. L’uomo si difese subito: disse che mai e poi mai aveva avuto rapporti non consenzienti con quelle ragazze. Ma nessuno diede ascolto alle sue parole. Venne definito tra le altre cose «orco», «porco» e «Weinstein italiano»: le sue vicende private finirono su tutte le cronache. Dovette cedere le quote della società che aveva fondato dieci anni prima. E, cosa più terribile, fu ostracizzato dalla Warner Bros. La casa di produzione, per cui aveva un film in uscita a Natale, tolse la sua firma dalla pellicola e precisò che il suo nome non sarebbe stato «associato ad alcuna attività relativa alla promozione e distribuzione del film». Tutto questo, quando ancora nessun giudice aveva emesso una condanna e nemmeno ordinato l’inizio di un processo. E quando nessun elemento oggettivo di rapporto non consenziente era emerso. Ancora una volta, tutti quanti emettemmo la nostra sentenza e la forma della pena (linciaggio, esclusione e damnatio memoriae di Brizzi) sulla base di un “estratto”: le parole di quelle ragazze. Di loro, solo tre presentarono querela. La procura di Roma, come avviene in un paese civile, raccolse tutte le informazioni, fece gli accertamenti necessari con scrupolo. E infine, più di un anno dopo la crocifissione di Brizzi, chiese di archiviare tutto nel modo più netto possibile: «Il fatto non sussiste». Non c’era stata nessuna molestia. Solo incontri consensuali.

Il danno, al di là dei giudizi morali e professionali che ognuno può dare sul conto di Brizzi, fu doppio. Da una parte vennero distrutti la vita di un uomo e il principio della presunzione d’innocenza. Dall’altra, rischiò di essere in parte minata la credibilità di lotte e inchieste sacrosante sulle molestie e sui sistemi di potere in ambienti come quelli dello spettacolo.

Credo che due siano state le molle principali di quell’atteggiamento giornalistico. Primo, i clic. Vi assicuro: poche storie come le molestie-avvenute-a-Hollywood-con-protagoniste-celebrity garantivano accessi ai siti web. C’era un momento in cui ogni mattina un giornalista si alzava, andava in redazione, e chiedeva ironico: «Chi è il molestatore del giorno?». Il tweet di accusa della giornata non tardava ad arrivare. Il giornale riprendeva acriticamente la dichiarazione senza contestualizzare, verificare o approfondire. Lo stratagemma per evitare qualsiasi querela è sempre lo stesso: mettere tutto tra virgolette. Attribuire all’accusatore ogni affermazione critica nei confronti dell’accusato. Fateci caso, ogni volta che leggete notizie di questo tipo.

Il secondo motivo è stato invece più ideologico. È come se in quel contesto qualsiasi domanda per mettere in fila i fatti fosse percepita dalla rete e dal movimento #MeToo come criminalizzante nei confronti del denunciante. Ora, sia chiaro: nessun giornalista (direi nessuna persona) si deve permettere di mettere in dubbio la versione di un accusatore sulla base di barbarici e medievali pregiudizi. Al tempo stesso, ha il dovere (non il diritto, il dovere) di fare le domande, per quanto quelle domande possano risultare antipatiche. Perché il lavoro del giornalista (ma, suggerirei, pure quello di un utente che scorre il feed) è anche quello di raccogliere fonti, valutarle, verificarle e incrociarle tra loro nel modo più scrupoloso possibile. Immaginiamo che domani io scriva una mail a un quotidiano e racconti di essere stato violentato da Beyoncé. Non vi aspettate mica che il buon giornalista riporti acriticamente le mie parole e le spari in prima pagina con il titolo: «Io, molestato da Beyoncé». Vi aspettate che – sempre trattandomi con rispetto e senza alcun pregiudizio – mi faccia domande, ascolti la versione dei fatti di Beyoncé e di altre persone, cerchi altre fonti a supporto o meno delle mie parole. Il tutto prima di pubblicare una singola riga. Perché fare verifiche giornalistiche e garantire il diritto alla difesa di qualcuno non significa certo promuovere le molestie. Significa soltanto applicare basilari regole di democrazia e non sacrificarle mai sulla base di una rabbia. Eppure nei mesi del #MeToo per la prima volta in maniera quasi unanime abbiamo dato per scontata la colpevolezza di tutti gli accusati, definendoli «molestatori», «porci», «stupratori» e «orchi».Guia Soncini, autrice del libro L’era della suscettibilità sostiene che allora si è iniziata a formare quella che chiama «dittatura della fragilità»: «È stato allora che si è stabilito che, se reclamavi per te l’etichetta di vittima, se la reclamavi a dispetto delle evidenze [...] allora eri invincibile, allora tuo era il regno, tua la potenza, e la sospensione del senso del ridicolo. Se però a quel gioco di appropriazione della fragilità ti sottraevi, eri il nemico, eri quella cui si poteva dare la caccia impuniti, eri quella che non si assoggettava al ministero dell’amore (che già dal nome non lascia dubbi: loro sono i buoni, la stronza sei tu) e quindi veniva inseguita dalla psicopolizia. Partita dalle questioni sessuali, la dittatura della fragilità si è presto estesa ad altri ambiti (la razza, il genere, qualunque dettaglio identitario vi venga in mente)».

È stato allora che noi giornalisti abbiamo aperto la strada a una pratica che negli anni successivi si è estesa a tanti altri temi e accuse, facendo da propellente alle gogne social del giorno: tra le regole di buon senso giornalistico e i clic, troppe volte abbiamo scelto i secondi, calpestando principi per i quali a migliaia hanno dato la vita. Che in quanto principi o valgono per tutti o non sono più tali.

La “molestia” che non raccontai[modifica | modifica sorgente]

Personalmente non mi reputo affatto migliore. Moltissime volte avrò infranto regole di buon senso per inseguire clic o pezzi “facili”. Una volta però l’ho imbroccata. Molti anni fa, finita un’intervista, un ragazzo di Roma che chiameremo Marco mi raccontò questa cosa qui: «Per lavoro sono stato due giorni interi con Kevin Spacey. Non mi era mai capitato di rifiutare così tante avance...». La battuta cadde lì, eravamo off the record. Quattro anni dopo, in pieno #MeToo, quando Spacey finì su tutte le prime pagine dei giornali del mondo per accuse (poi cadute) di molestie, richiamai quel ragazzo. Era disposto a parlare, con nome e cognome, confermando e dettagliando quel racconto. «Dopo due giorni insieme eravamo a pranzo con altre due persone» mi racconta. «Kevin Spacey era di fianco a me. A un certo punto mise la sua mano sulla mia gamba.» Pensai di avere uno scoop mondiale. «Parla un italiano: “Anch’io molestato da Kevin Spacey”.» Già pregustavo la mia gloria e la notizia ripresa in tutto il mondo. Finita l’eccitazione, assieme al mio capo ci facemmo qualche domanda. Ci sono i presupposti giuridici per una molestia, uno stupro, una violenza? Il ragazzo sarebbe pronto a denunciarlo? Come ha reagito Spacey dopo il suo rifiuto? «Bene, si fece una risata e ritirò la mano. Era un bambinone allegro» disse Marco dopo che lo richiamai. Alla fine decidemmo che no: quel racconto, per quanto gustoso, non rappresentava una notizia o una violenza e non andava pubblicato (mi permetto di riportarlo qui perché adesso non rivela nulla di nuovo rispetto alla sessualità di Spacey e non è affatto diffamante). Avvisai anche Marco, che capì e condivise la scelta (cosa non scontata, in quei giorni). Due giorni dopo la mia decisione, su tutti i giornali del mondo comparve l’“accusa” via Twitter di un attore messicano: «Anch’io molestato da Kevin Spacey. Ha tentato di palpeggiarmi». Nessun approfondimento, nessuna verifica, nessuna denuncia. Solo un post Facebook dell’attore. E, qualche minuto dopo, migliaia di titoli di giornali che lo riprendevano.

Ben due anni dopo il #MeToo, sono iniziati gli esami di coscienza del giornalismo. «The New York Times» ha messo in dubbio il lavoro di Ronan Farrow (giornalista figlio di Mia Farrow che ha costruito la prima inchiesta contro Harvey Weinstein), adombrando una sciatteria giornalistica nella verifica dei racconti. E, assieme ad altre testate come «The Washington Post», si è approcciato in modo diverso alle nuove denunce arrivate. Come quelle fatte da Tara Reade nei confronti dell’allora candidato alla presidenza Joe Biden.

Ex assistente di Biden negli anni Novanta, prima delle elezioni 2020 la Reade accusa il futuro presidente di stupro. Nella primavera del 1993, racconta, lui la spinse contro un muro, le mise la mano sotto la gonna e la penetrò con un dito. Il caso è delicatissimo. La Fox, tv di orientamento repubblicano, inizia a cavalcarlo. La Cnn decide di ignorarlo. «The New York Times» sceglie invece di approfondirlo con un’inchiesta a quattro mani. I due reporter fanno quel lavoro di ricerca di altre fonti e contestualizzazioni. Nell’ordine: intervistano Tara Reade più volte e in giorni diversi; cercano altre fonti e documenti che corroborino il suo racconto; parlano con più di venti persone che a quel tempo hanno lavorato per Biden e/o hanno conosciuto la Reade; consultano i legali della Reade; ricontattano sette donne che in passato hanno già criticato i comportamenti di Biden, definiti come «inappropriati». Le loro conclusioni vengono raccolte in un’inchiesta dettagliatissima. I reporter spiegano che la donna ha fatto denuncia alla polizia di Washington, ma solo «per proteggersi». Sottolineano che «la signora Reade non riesce a ricordare il giorno, l’orario o il posto esatto in cui sarebbe avvenuto lo stupro». Dicono che molte frasi della donna non sono supportate da documenti che pure dovrebbero esserci, ma proprio non si trovano. Intervistano altre persone che smentiscono alcuni racconti della donna. E alla fine dell’inchiesta scrivono: «Il “Times” non ha trovato alcun disegno di sexual misconduct», cattivo comportamento sessuale, «da parte di Mr. Biden». Dettaglio dedicato proprio a chiunque fosse pronto a urlare al maschilismo nascosto dei giornalisti del «New York Times»: a condurre l’inchiesta sono state due donne.

In Uscita di sicurezza di Ignazio Silone, un bambino racconta di quando vide un detenuto portato via dalle guardie. Era «un piccolo uomo cencioso e scalzo, ammanettato da due carabinieri...» che «procedeva a balzelloni nella strada».

«Guarda com’è buffo» dice il bambino al padre.

Più tardi, in privato, il padre lo fissò severamente e lo tirò per un orecchio. «Non l’avevo mai visto così malcontento di me.»

«Cosa ho fatto di male?» gli chiesi stropicciandomi l’orecchio indolorito.

«Non si deride un detenuto, mai.»

«Perché no?.»

«Perché non può difendersi. E poi perché forse è innocente. In ogni caso perché è un infelice.»

Eccolo qua, il principio da ricordare, anche quando il detenuto è soltanto il linciato del giorno sui social. Perché la violazione di questi tre principi rende sempre più terrificanti i social: da luogo in cui andavamo per raccontare i nostri segreti a luogo in cui siamo terrorizzati di raccontare qualsiasi cosa. Scegliendo il silenzio. Arrendendoci all’unica forma peggiore della censura stessa: l’autocensura.