Abbandono dei principi giornalistici, nascita delle Fuck News ed episodi vari: differenze tra le versioni

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===la lettera di dimissioni di Bari Weiss.===
===MeToo===
<u>Scoppia il #MeToo</u>. Per mesi, i media di tutto il mondo incassano clic raccogliendo e riprendendo le dichiarazioni di persone che lanciano accuse pesantissime nei confronti di uomini famosi.
<u>Scoppia il #MeToo</u>. Per mesi, i media di tutto il mondo incassano clic raccogliendo e riprendendo le dichiarazioni di persone che lanciano accuse pesantissime nei confronti di uomini famosi.


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Molti giornalisti finiscono per trasformarsi in attivisti o per ingraziarsi gli attivisti, più che raccontare i fatti.
Molti giornalisti finiscono per trasformarsi in attivisti o per ingraziarsi gli attivisti, più che raccontare i fatti.


Bari Weiss è una giornalista americana. È tagliente, lucida, non convenzionale. Nel 2017 viene chiamata dal «New York Times». Il giornale più prestigioso del mondo, dopo la vittoria di Donald Trump, si è reso conto di avere capito ben poco degli americani meno progressisti e vuole nuove firme che li raccontino: Bari Weiss, che si definisce di sinistra moderata seppure venga considerata conservatrice, è la migliore. Va tutto liscio, per un po’. Ma poi arriva la fine del 2017.
=== [[Cancel culture, dimissioni del giornalista Bari Weiss|Le critiche al giornalismo di Bari Weiss in seguito alla stigmatizzazione '''del responsabile degli editoriali del «New York Times»''']] ===


Dopo il 2017 i giornali e i giornalisti che raccontano temi sociali e divisivi, secondo l’accusa di Bari Weiss, iniziano sempre più ad assumere un conformismo piacionesco nei confronti dei social, Twitter primo tra tutti. ''<u>Non scriviamo più per stimolare il senso critico del lettore, ma per avere il suo retweet</u>'', è il senso.
La vicenda che la colpisce di più sono le '''dimissioni “spintanee” di James Bennet'''. Responsabile degli editoriali del «New York Times», era stato <u>sommerso dalle critiche</u> di colleghi e lettori dopo che aveva fatto pubblicare l’editoriale di un senatore repubblicano, in cui l’autore chiedeva di schierare l’esercito contro i manifestanti per le strade degli Stati Uniti. Come se la pagina dedicata agli editoriali di persone esterne dovesse ospitare soltanto opinioni che ci trovano già d’accordo.
Bari Weiss si dimette e pubblica una lettera durissima sul suo sito.<blockquote>«Twitter non è nella gerenza del “New York Times”. Ma è diventato il suo vero direttore» scrive. «Le storie sono scelte e raccontate per compiacere lo zoccolo duro del pubblico anziché attrarre i lettori più curiosi a leggere notizie di tutto il mondo e poi trarre le proprie conclusioni.» «Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace, quando possiamo assicurarci il risultato (e i clic) pubblicando il nostro quattromillesimo articolo in cui sosteniamo che Donald Trump è un pericolo per il paese e il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma [...] Gli editoriali che appena due anni fa sarebbero stati facilmente pubblicati oggi metterebbero in difficoltà il caporedattore o il giornalista, forse fino a farli licenziare. Se si ritiene che un pezzo possa avere un contraccolpo interno o sui social media non viene proprio pubblicato».</blockquote>Tra gli altri casi, quello del sondaggista politico David Shor, che perde il lavoro dopo aver twittato dati sul legame tra gli episodi di vandalismo seguiti all’uccisione di George Floyd e l’aumento del consenso dell’allora presidente Trump.
==Le fuck news==
==Le fuck news==
La rinuncia alla complessità avviene quasi sempre per paura, conformismo o convenienza: paura di finire linciati; conformismo da pigrizia intellettuale; convenienza di mantenere o guadagnare lettori. Tutte cose alla base di quelle che, come ho già detto, io chiamo le “fuck news”: quelle notizie apparentemente perfette che ci fanno imprecare e fanno salire l’indignazione di utenti. Quelle notizie che fanno sobbalzare e che vengono ricondivise e amplificate senza alcun approfondimento e verifica.
La rinuncia alla complessità avviene quasi sempre per paura, conformismo o convenienza: paura di finire linciati; conformismo da pigrizia intellettuale; convenienza di mantenere o guadagnare lettori. Tutte cose alla base di quelle che, come ho già detto, io chiamo le “fuck news”: quelle notizie apparentemente perfette che ci fanno imprecare e fanno salire l’indignazione di utenti. Quelle notizie che fanno sobbalzare e che vengono ricondivise e amplificate senza alcun approfondimento e verifica.
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Quando si sviluppa un contenuto capace di scatenare rabbia, il meccanismo che avviene nelle redazioni è semplice (e lo so non perché sia meglio dei miei colleghi, ma semplicemente perché vi ho partecipato anch’io per anni).
Quando si sviluppa un contenuto capace di scatenare rabbia, il meccanismo che avviene nelle redazioni è semplice (e lo so non perché sia meglio dei miei colleghi, ma semplicemente perché vi ho partecipato anch’io per anni).
===Amy Cooper===
Spieghiamolo prendendo come esempio il video di Amy Cooper, che avrete visto anche voi. Il 25 maggio 2020, stesso giorno dell’omicidio di George Floyd, diventa virale il filmato di una donna bianca col cane a Central Park che, ripresa da un uomo nero, chiama la polizia e inizia a urlare al telefono: «C’è un afroamericano che mi sta minacciando». La narrazione è: ''donna che ha lasciato il cane senza guinzaglio, quando viene redarguita da un uomo nero, chiama la polizia e si inventa un reato per denunciarlo.'' Perfetta. Il video esplode sui social, provocando comprensibile indignazione. A questo punto, nelle redazioni online scatta l’allarme: «C’è questa vicenda...» segnala agli altri il giornalista solitamente più smanettone sui social, «riprendiamola». Il giornalista, solitamente quello che l’ha segnalata, fa un primo pezzo in cui semplicemente si riprende “la notizia”. Spesso non fa controlli, non fa verifiche, non controlla ulteriori fonti, non alza il telefono per porre domande. Tutto quello che deve fare è pubblicare il video, scrivere un sunto (del video o dell’accusa di qualcuno verso qualcun altro) e strillare un buon titolo. Quindi, postare immediatamente quel contenuto sui social, affinché faccia più ''engagement'' (ovvero produca commenti, like e condivisioni). I tempi sono fondamentali: prima il contenuto verrà postato sui social, più sarà in grado di raggiungere persone che non si sono ancora imbattute nella notizia, e più sarà idoneo a scatenare nuove rabbie (e quindi condivisioni). Il primo pezzo è il test. Un primo contenuto da pubblicare entro i primi dieci minuti dalla segnalazione (massimo venti) che ha l’obiettivo di percepire l’umore della rete. Dopo pochi secondi, redazioni e creator sanno se voi vi state appassionando alla storia: dai vostri like, dai vostri commenti, dai vostri clic sul lancio. Se non vi indigna, la storia finisce lì. Tutto sommato è stato un investimento ragionevole: dieci minuti del tempo di un autore per un test concreto.
Se la storia vi indigna, allora “si sviluppa”. Il creator o la redazione si prefigge come scopo quello di produrre e postare quanti più contenuti nel giro di ventiquattro ore (a volte anche dodici). Basta un po’ di esperienza e di pensiero laterale. E così, possiamo fare come prima cosa un ritratto di lei (“Chi è Amy, la donna che si è inventata l’aggressione”). Poi possiamo continuare con un ritratto di lui (“Chi è Chris, l’uomo che riprendeva”). Esauriti i ritratti, se la storia ancora tira, possiamo allargare il cerchio. Riprendiamo prima le dichiarazioni di solidarietà delle star al protagonista, poi i tweet del “web indignato”. Se siamo ancora più ambiziosi, possiamo aggiungere un pezzo più profondo: un excursus sul rapporto tra donne ricche bianche e razzismo. Infine, magari la mattina dopo, possiamo condire il tutto con il commento di una firma prestigiosa che replica l’indignazione della rete. Alla fine, il caporedattore o il creator chiuderà le sue ventiquattro ore portandosi a casa vagonate di follower o di accessi, da capitalizzare nei confronti dei brand al momento di un contratto o nei confronti del direttore al momento della promozione. La mattina dopo, tutti penseranno già alla nuova polemica.
Ho esagerato tutto volutamente (le redazioni sono ancora uno dei luoghi più intellettualmente vivaci del mondo), solo per far passare il concetto: troppo spesso, nel racconto di vicende come queste, '''nella rincorsa all’indignazione, noi giornalisti, autori o semplici commentatori, rischiamo di perdere il gusto della complessità. Complessità che deriva solo e soltanto sempre da tre fattori: fonti alternative, senso critico e contesto.'''


Sulle fonti alternative, vale sempre il detto che la grande giornalista '''Fiorenza Sarzanini usa per parlare delle fonti giudiziarie: «Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro». Perciò, cari utenti, ogni volta che leggete una notizia che vi fa indignare, prima di ricondividerla cercatela su altre fonti.'''
=== [[Cancel culture, episodio Amy Cooper|Episodio di Amy Cooper]] ===


Sul senso critico, vale il detto: ''«Quando ti sembra troppo bella per essere vera, non è vera»''. O meglio, è sempre più complicata di così. Sul caso di Amy Cooper, per esempio, ci sono alcuni dettagli che nessun giornalista inizialmente si è mai preoccupato di raccogliere prima di sparare la notizia acriticamente.
*Primo fatto: l’uomo che filmava (il nero) si chiama Chris Cooper. È un osservatore di uccelli. E c’è questa cosa a Central Park. Gli osservatori di uccelli odiano i proprietari che portano i cani a fare i bisogni, perché spaventano i volatili. Chris Cooper è un tipino piuttosto polemico. È un fatto che se ne va al parco portandosi con sé i croccantini. Quando vede cani non al guinzaglio, li avvicina con i croccantini e inizia a minacciare i proprietari. Ha già due precedenti scontri di questo tipo con altri proprietari.
*Secondo fatto: quello che vediamo in video non è tutto quello che è successo (non lo è mai). C’è un dopo e soprattutto c’è un prima. Prima che l’uomo iniziasse a registrare col suo telefono, aveva effettivamente minacciato la donna: «Se vuoi chiamare la polizia fallo, ma sappi che allora anch’io farò quel che voglio, e non ti piacerà». Queste parole sono state ammesse davanti alla polizia dallo stesso uomo. Non so voi, ma se fossi stato una donna in mezzo al parco, davanti a un uomo che mi dice una frase del genere a pochi metri da me, mi sarei sentito vagamente in pericolo e avrei perso lucidità.
*Terzo fatto: quando Amy Cooper chiama la polizia, presumibilmente in uno stato di ansia e paura, non c’è campo. Il centralinista del 911, come confermato dalla registrazione, continua a dire alla donna che non sente niente. Anche per questo Amy Cooper ripete continuamente nel video quel messaggio («C’è un uomo afroamericano che mi sta minacciando»), in un crescendo disturbante eppure ora più comprensibile.
Ora. Alla luce di questi fatti il comportamento della donna è totalmente condivisibile? Non necessariamente. Non credo sia neppure compito o aspirazione dei giornalisti pronunciare la sentenza. Ma è loro dovere raccogliere e presentare quanti più fatti possibile, perché diano il contesto e gli strumenti ai lettori (e ai follower) per farsi la loro opinione. Nel caso di Amy Cooper, e in tanti, tantissimi altri casi, quel lavoro non è stato fatto. Perché farlo significava essere a rischio linciaggio della folla dei social, essere tacciati di razzismo o di altro. Perché nell’informazione social non contempliamo dubbi, e chiunque ci porti fatti che ne fanno crescere in noi di nuovi ci sta in effetti distraendo. Forse ci conviene etichettarlo come parte dei cattivi e non ascoltarlo più.
==Il crollo del contesto==
==Il crollo del contesto==
Nel frattempo Amy Cooper ha perso il lavoro, ha cambiato città ed è ancora oggetto di minacce e insulti. Lo stesso uomo che l’ha filmata, ha detto saggiamente: «Non sono sicuro che quel singolo minuto possa definirla completamente come persona». È come se avesse riassunto un’altra dura legge dei social: in un minuto si fa la vita di una persona. Perché crolla ogni contesto. Perché formiamo le nostre opinioni (e indignazioni) basandoci esclusivamente su “pezzi” di qualcosa: quasi sempre uno screenshot o un estratto video di pochi secondi. Tendiamo a credere che quella piccola parte sia il tutto, e sulla base di quella credenza sviluppiamo una certezza: a quel punto non abbiamo bisogno del contesto, né del prima né del dopo, né di spiegazioni né di versioni.
Nel frattempo Amy Cooper ha perso il lavoro, ha cambiato città ed è ancora oggetto di minacce e insulti. Lo stesso uomo che l’ha filmata, ha detto saggiamente: «Non sono sicuro che quel singolo minuto possa definirla completamente come persona». È come se avesse riassunto un’altra dura legge dei social: in un minuto si fa la vita di una persona. Perché crolla ogni contesto. Perché formiamo le nostre opinioni (e indignazioni) basandoci esclusivamente su “pezzi” di qualcosa: quasi sempre uno screenshot o un estratto video di pochi secondi. Tendiamo a credere che quella piccola parte sia il tutto, e sulla base di quella credenza sviluppiamo una certezza: a quel punto non abbiamo bisogno del contesto, né del prima né del dopo, né di spiegazioni né di versioni.
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Non voglio entrare nel merito di ogni vicenda ma nel (mio) metodo: il mio proposito per il futuro da utente e giornalista è di lasciare sempre meno che la mia indignazione mi precluda la ricerca di altri “pezzi” di fatti. Di far sì che quell’estratto da cui parte la mia indignazione rappresenti un elemento del racconto, e mai il tutto. E di non dimenticarmi di coltivare sempre più i dubbi. Soprattutto, come nei casi come quello di Justine Sacco, quando non ce li ho.
Non voglio entrare nel merito di ogni vicenda ma nel (mio) metodo: il mio proposito per il futuro da utente e giornalista è di lasciare sempre meno che la mia indignazione mi precluda la ricerca di altri “pezzi” di fatti. Di far sì che quell’estratto da cui parte la mia indignazione rappresenti un elemento del racconto, e mai il tutto. E di non dimenticarmi di coltivare sempre più i dubbi. Soprattutto, come nei casi come quello di Justine Sacco, quando non ce li ho.
=Dal capro espiatorio ai linciaggi social=
=Dal capro espiatorio ai linciaggi social=
==La storia di una battuta venuta male==
 
===Justine Sacco===
=== Justine Sacco, La storia di una battuta venuta male ===
È il 20 dicembre 2013. Justine Sacco deve prendere un volo di 11 ore e per ingannare il tempo, prova a fare la simpatica coi suoi 170 follower su Twitter. Scrive 3 battute, poco riuscite e l'ultima, prima di imbarcarsi sul volo di undici ore: «Vado in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo. Sono bianca!».
È il 20 dicembre 2013. Justine Sacco deve prendere un volo di 11 ore e per ingannare il tempo, prova a fare la simpatica coi suoi 170 follower su Twitter. Scrive 3 battute, poco riuscite e l'ultima, prima di imbarcarsi sul volo di undici ore: «Vado in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo. Sono bianca!».
Spegne il cellulare e sale sull’aereo. Quando l’aereo atterra e riaccende il cellulare le arrivano messaggi da parte dei suoi amici del tipo: «Mi dispiace vedere tutto quello che sta succedendo», «Chiamami immediatamente» e «Sei il trend numero uno al mondo su Twitter».
Spegne il cellulare e sale sull’aereo. Quando l’aereo atterra e riaccende il cellulare le arrivano messaggi da parte dei suoi amici del tipo: «Mi dispiace vedere tutto quello che sta succedendo», «Chiamami immediatamente» e «Sei il trend numero uno al mondo su Twitter».