Abbandono dei principi giornalistici, nascita delle Fuck News ed episodi vari

Da Tematiche di genere.
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MeToo

Scoppia il #MeToo. Per mesi, i media di tutto il mondo incassano clic raccogliendo e riprendendo le dichiarazioni di persone che lanciano accuse pesantissime nei confronti di uomini famosi.

Alcuni si fanno prendere la mano e abbandonano basilari principi giornalistici:

  • la verifica dei racconti
  • la consultazione di altre fonti
  • l’offerta di replica alla controparte
  • la sacrosanta presunzione di innocenza.

Perché i racconti delle denunce “tirano”, più di ogni altra cosa.

Il #MeToo è una storia che ce le ha tutte: Sesso, Soldi, Fama, Droga.

Molti giornalisti finiscono per trasformarsi in attivisti o per ingraziarsi gli attivisti, più che raccontare i fatti.

Le critiche al giornalismo di Bari Weiss in seguito alla stigmatizzazione del responsabile degli editoriali del «New York Times»[modifica | modifica sorgente]

Le fuck news[modifica | modifica sorgente]

La rinuncia alla complessità avviene quasi sempre per paura, conformismo o convenienza: paura di finire linciati; conformismo da pigrizia intellettuale; convenienza di mantenere o guadagnare lettori. Tutte cose alla base di quelle che, come ho già detto, io chiamo le “fuck news”: quelle notizie apparentemente perfette che ci fanno imprecare e fanno salire l’indignazione di utenti. Quelle notizie che fanno sobbalzare e che vengono ricondivise e amplificate senza alcun approfondimento e verifica.

Quando vi imbattete in una storia che vi fa indignare, il vostro cervello produce cortisolo – l’ormone dello stress – il vostro battito aumenta, sentite salire la rabbia, volete fare qualcosa. Subito. E possibilmente senza troppo sforzo. Ecco che cliccate su “Ricondividi”.

Ingrediente più efficace: l’indignazione.

Qualche anno fa i ricercatori dell’università Beihang di Pechino analizzarono milioni di contenuti postati su Weibo, il Twitter cinese. Etichettarono ogni contenuto in base all’emozione che suscitava nel lettore, quindi li ordinarono in una classifica. Ne ricavarono due osservazioni. Prima, i contenuti che provocano felicità circolano più veloci di quelli che provocano tristezza.

La tristezza è un’emozione che tende a disattivarci, a farci chiudere le spalle e ritirarci nella nostra solitudine.

più veloce a contagiare della felicità, c’è solo la rabbia. Salvo rarissimi casi (come una notizia che racconta una scoperta eccezionale, tipo quella della cura del cancro) non c’è niente che sui social viaggi più veloce della rabbia. E i temi a cui reagiamo con più rabbia, conclusero i ricercatori cinesi, sono quelli politici e sociali: questioni Lgbtq+, diritti delle minoranze, antirazzismo.

Quando si sviluppa un contenuto capace di scatenare rabbia, il meccanismo che avviene nelle redazioni è semplice (e lo so non perché sia meglio dei miei colleghi, ma semplicemente perché vi ho partecipato anch’io per anni).

Episodio di Amy Cooper[modifica | modifica sorgente]

Il crollo del contesto[modifica | modifica sorgente]

Nel frattempo Amy Cooper ha perso il lavoro, ha cambiato città ed è ancora oggetto di minacce e insulti. Lo stesso uomo che l’ha filmata, ha detto saggiamente: «Non sono sicuro che quel singolo minuto possa definirla completamente come persona». È come se avesse riassunto un’altra dura legge dei social: in un minuto si fa la vita di una persona. Perché crolla ogni contesto. Perché formiamo le nostre opinioni (e indignazioni) basandoci esclusivamente su “pezzi” di qualcosa: quasi sempre uno screenshot o un estratto video di pochi secondi. Tendiamo a credere che quella piccola parte sia il tutto, e sulla base di quella credenza sviluppiamo una certezza: a quel punto non abbiamo bisogno del contesto, né del prima né del dopo, né di spiegazioni né di versioni.

Greta Beccaglia[modifica | modifica sorgente]

Sui social non abbiamo dubbi. A inizio dicembre 2021 diventa virale in rete il video di una giornalista di Toscana Tv, Greta Beccaglia, che, mentre raccoglie le opinioni dei tifosi all’uscita dallo stadio di Empoli, viene molestata in diretta da un uomo con uno schiaffo sul sedere. Il video dura meno di un minuto e provoca indignazione anche per le parole che il giornalista dallo studio dice in quei secondi: «Non te la prendere, Greta». Personalmente, appena visto l’estratto, l’adrenalina mi era entrata in circolo, il battito era aumentato, dovevo fare qualcosa: scrivere contro quell’uomo. Subito. Prima che lo facessi, un’amica mi ha girato il video integrale. È allora che ho iniziato ad avere un dubbio, a contemplare quantomeno i grigi in una vicenda che fino ad allora nella mia testa aveva solo bianchi e neri, tra cui il giornalista cattivo, maschilista e indegno di essere uomo. Ho cercato altre fonti, altri “pezzi” di informazioni per ricostruire il contesto. Ho visto per la prima volta il video integrale dell’accaduto, in cui il presentatore interrompe la diretta indignato «perché determinati atteggiamenti meritano ogni tanto qualche sano schiaffone». Ho letto la sua spiegazione: «Non te la prendere», non era inteso come “Non farla lunga, ti hanno solo toccato il c..o”. Era: “Non prendertela, quelli lì sono dei violenti, cerca di non reagire perché se no rischi la tua incolumità lì, ora, accerchiata. Poi li denunciamo”. Ho letto poi le interviste della stessa giornalista, che spiega come dopo sia stato lo stesso collega a rincuorarla e soprattutto a invitarla a raccontare l’accaduto e denunciare tutto. La mia indignazione si era affievolita.

Letizia Battaglia[modifica | modifica sorgente]

Altro dubbio. A novembre 2020 la fabbrica di auto Lamborghini pubblica sui suoi social alcuni scatti commissionati a Letizia Battaglia per un progetto piuttosto figo. Si vedono paesaggi palermitani, Lamborghini e bambine. Apriti cielo. In rete le immagini sono «sessiste, maschiliste, problematiche per il retaggio culturale che queste evocano» scrivono dai collettivi femministi. I giornali riprendono. Nel giro di un pomeriggio, sindaco di Palermo e azienda corrono ai ripari e ritirano immediatamente gli scatti da tutti i social. Contesto: la ricerca fotografica di Letizia Battaglia da decenni ha al suo centro le bambine. Eliminare le bambine dalle sue foto è un po’ come togliere dal museo l’Autoritratto con orecchio bendato di van Gogh per incitamento all’automutilazione.

Barbara Palombelli[modifica | modifica sorgente]

Ancora, a settembre 2021 diventa virale il video di un minuto in cui la conduttrice di Forum, Barbara Palombelli, si interroga sulla violenza di genere. «A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa e obnubilati oppure c’è stato un comportamento aggressivo ed esasperante anche dall’altra parte?» Shitstorm di giorni. Editoriali, commenti, insulti, indignazione. Tutto basato su quell’unica fonte: un minuto di video diventato virale sui social. Contesto: la Palombelli stava introducendo il caso che si raccontava in quella puntata. Un caso giudiziario in cui un marito era stato prosciolto dall’accusa di violenza proprio perché si era scoperto che era lui a essere stato picchiato più volte dalla moglie, con schiaffi e spintoni giù dalle scale. Peccato che nell’epoca dei meme, dei ritagli, della pigrizia, della rincorsa all’indignazione e della conseguente morte del contesto, un singolo minuto valga l’intera vita di una persona.

  • Il giornalista in studio è stato sospeso
  • le foto di Letizia Battaglia ritirate
  • la Palombelli linciata.

Non voglio entrare nel merito di ogni vicenda ma nel (mio) metodo: il mio proposito per il futuro da utente e giornalista è di lasciare sempre meno che la mia indignazione mi precluda la ricerca di altri “pezzi” di fatti. Di far sì che quell’estratto da cui parte la mia indignazione rappresenti un elemento del racconto, e mai il tutto. E di non dimenticarmi di coltivare sempre più i dubbi. Soprattutto, come nei casi come quello di Justine Sacco, quando non ce li ho.

Dal capro espiatorio ai linciaggi social[modifica | modifica sorgente]

Justine Sacco, La storia di una battuta venuta male[modifica | modifica sorgente]

È il 20 dicembre 2013. Justine Sacco deve prendere un volo di 11 ore e per ingannare il tempo, prova a fare la simpatica coi suoi 170 follower su Twitter. Scrive 3 battute, poco riuscite e l'ultima, prima di imbarcarsi sul volo di undici ore: «Vado in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo. Sono bianca!». Spegne il cellulare e sale sull’aereo. Quando l’aereo atterra e riaccende il cellulare le arrivano messaggi da parte dei suoi amici del tipo: «Mi dispiace vedere tutto quello che sta succedendo», «Chiamami immediatamente» e «Sei il trend numero uno al mondo su Twitter».

Quando apre Twitter scopre di essere stata sommersa di insulti, che è stato creato un hashtag «L’Aids può colpire chiunque». L’hashtag è #HasJustineLandedYet, “Justine è già atterrata?”.

Mentre lei dormiva tranquilla un giornalista aveva ritwittato ai suoi 15.000 contatti. Con gran gusto: «Il fatto che lei fosse una dirigente che lavorava nelle pubbliche relazioni ha reso il tutto ancora più delizioso» ha raccontato il giornalista. «È una soddisfazione poter dire “Ok, facciamo che stavolta un tweet razzista da parte di un pezzo grosso della Iac non passi inosservato”. Lo rifarei senz’altro.»

La donna, nel giro di poche ore, è diventata il bersaglio perfetto: ricca-bianca-manager-newyorchese-che-attacca-un-paese-povero. Aggredirla sui social e chiederne la testa, nella mente dei linciatori (coloro che adorano linciare le persone sui social) equivale a riscattare un paese dal razzismo strutturale dei bianchi.

Ci sono tre dinamiche tipiche dei linciaggi social, a cui probabilmente avete assistito o partecipato.

  • i colpi si fanno più forti, numerosi e intensi man mano che il linciato si accascia a terra.[...] Circa centomila tweet e oltre 1,2 milioni di ricerche Google “Justine Sacco” nei dieci giorni successivi.
  • più il linciato è a terra, più l’obiettivo del linciaggio si allarga[...] Non ci basta umiliarlo, vogliamo togliergli tutto. Anche il diritto al lavoro
  • mai avere dubbi. Sui social troppo spesso non ci concediamo interpretazioni altre, opportunità di replica, analisi del contesto. Linciamo, e se ci saremo sbagliati sul conto del linciato, pazienza. Nessuno andrà ad approfondire quello che veramente è successo, domani saremo tutti impegnati a linciare qualcun altro. Nessuno, tra i milioni di persone che aspettavano l’atterraggio di Justine, aveva alcuna prova testuale – dichiarazione, video, audio – che stabilisse con certezza il suo razzismo. Nessuno aveva in alcun modo approfondito la sua vita. Nessuno ha mai sospettato che la sua potesse essere una battuta venuta male. Nulla importava, in quel momento. La folla aveva deciso, e l’aveva fatto esclusivamente sulla base di quel singolo tweet.

L’unico a cui venne un dubbio e decise di approfondire fu Jon Ronson. Formidabile giornalista inglese, è forse l’autorità mondiale sui “linciati”. Uno che ne ha intervistati a decine, e ha scritto un libro che a mio avviso dovrebbe essere scelto come testo nelle scuole elementari: I giustizieri della rete, in cui racconta il suo incontro esclusivo con Justine. La acchiappò mentre stava ritirando gli scatoloni dal luogo di lavoro (sì, l’hanno fatta fuori senza pietà). Lei gli fece notare l’ironia e il paradosso della sua battuta (Non posso prendere l’Aids perché sono bianca): «Solo un folle potrebbe pensare che i bianchi non prendano l’Aids». A guardarlo oggi, scrive Ronson, è ovvio che il suo tweet, per quanto di cattivo gusto, non fosse razzista, ma più un commento sulla tendenza ingenua dei bianchi a immaginarsi immuni a malattie considerate lontane come l’Aids. «Era una battuta a proposito di ciò che sta accadendo nel Sudafrica post-apartheid, una situazione a cui non prestiamo attenzione. Era un commento totalmente esagerato sulla sproporzione nelle statistiche sull’Aids.» Le è andata male.