Viralità, Clickbait e FuckNews

Da Tematiche di genere.
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Dal boom dei giornali online al crollo[modifica | modifica sorgente]

  • Grazie a internet inizialmente ci fu un periodo di forte crescita delle testate online dei grandi («Time», «The New York Times», «National Geographic»), le stime parlavano di +1.000% di utenti l’anno. Questa bolla però durò poco, si dissolse nel 2001.

Il primo caso di viralità[modifica | modifica sorgente]

  • Dalla fine di questo boom si passò ad un giornalismo più modesto a caccia di viralità. C'è un episodio singolo che può essere visto come simbolo dell'inizio della viralità. In breve uno sconosciuto, un certo Jonah Peretti, polemizzò contro la Nike sullo sfruttamento dei lavoratori, pubblicò le mail che divennero virali. Nel giro di poche settimane, il thread venne letto da milioni di persone.
  • Peretti si trovò in tv a dibattere dei diritti dei lavoratori con il capo delle relazioni pubbliche di Nike e lui in primis affermò: «Perché sono qui io, invece delle persone che hanno dedicato la vita a combattere per i diritti umani?».
  • L'insegnamento che se ne deduce è che nel mondo dei mass media non importa essere esperti o competenti circa un un determinato tema, ma far arrivare la battaglia a più persone possibile. «Pochissime battaglie verranno raccontate» - spiega Francesco Oggiano - «senza una storia appetibile, un protagonista carismatico o un antagonista intrigante.»

Si cerca di replicare quel caso, si studiano le caratteristiche dei contenuti virali[modifica | modifica sorgente]

  • Inizialmente la parola virale non veniva usata, Peretti parla di «media contagiosi»
  • Capisce che grazie sta nascendo un nuovo pubblico: gli impiegati annoiati al lavoro.
  • Per essere contagioso, un progetto deve essere semplice, conciso: «la più semplice forma di un’idea» «spiegabile in massimo una frase».

La ricerca della viralità viene ingegnerizzata con test A/B sempre più raffinati. Un contenuto può uscire contemporaneamente in decine di versioni diverse per vedere quali funzionano meglio: le immagini blu ottengono più like di quelle rosse; “questo“ o “questa“ (madre, padre, scoiattolo, ecc.) all’inizio di un titolo garantiscono più condivisioni.

Le caratteristiche per rendere un contenuto virale sono:[modifica | modifica sorgente]

  • Indignazione (vedi le mail con la Nike)
  • Immedesimazione (vedi il numero per gli spasimanti indesiderati)
  • Divertimento (vedi il sito satirico sul razzismo)
  • Non conta l’oggetto dell’articolo ma l’emozione nel soggetto che lo legge.

Per approfondire vedi anche: Ricetta per la viralità

Conta tanto le emozioni che un contenuto suscita ("Il contenuto diventa un carburante per le nostre conversazioni").

Un episodio emblematico di viralità è 'The Dress' del 2015, dove una semplice domanda su un abito - se fosse bianco e oro o blu e nero - ha suscitato un vasto dibattito online, guadagnando milioni di visualizzazioni e risposte. La natura accessibile e intrigante del dibattito, combinata con un'immagine accattivante e la possibilità per gli utenti di social media di esprimere le loro opinioni e personalità, ha dimostrato il potere di un contenuto virale ben congegnato, pur essendo di natura apparentemente frivola.

L'episodio di "The Dress" è un esempio classico di come diversi elementi possano convergere per creare un contenuto virale. Le caratteristiche che hanno contribuito alla sua viralità includono:

  1. Storia coinvolgente: Il dibattito su quale fosse il colore reale del vestito ha creato una storia coinvolgente che ha catturato l'attenzione del pubblico. Le persone volevano conoscere la "verità" e questa curiosità ha alimentato la condivisione del contenuto.
  2. Elementi interattivi: Il semplice fatto di chiedere l'opinione delle persone sul colore del vestito ha creato un elemento interattivo. Le persone erano invogliate a partecipare al dibattito e a condividere la loro opinione, rendendo il contenuto più propenso a diventare virale.
  3. Rilevanza emotiva: La divisione tra coloro che vedevano il vestito come bianco e oro e coloro che lo vedevano come blu e nero ha suscitato forti emozioni. Questo dibattito ha portato le persone a difendere la loro posizione con passione, aumentando la rilevanza emotiva del contenuto.
  4. Identità sociale e condivisione: La questione del colore del vestito è diventata un modo per le persone di esprimere la loro identità e appartenenza a un determinato "gruppo" (quelli che vedevano bianco e oro vs. quelli che vedevano blu e nero). Questo ha incoraggiato la condivisione del contenuto.
  5. Fattore sorpresa: L'idea che le persone potessero vedere colori diversi nello stesso vestito ha creato un elemento di sorpresa. Questo ha reso il contenuto più interessante e ha spinto le persone a condividerlo.
  6. Risonanza con eventi attuali: Sebbene non fosse direttamente collegato a un evento specifico, "The Dress" è diventato un fenomeno culturale nel suo momento, rendendolo rilevante e attuale.

Produzione di contenuti virali su larga scala da parte dei giornalisti[modifica | modifica sorgente]

Francesco Oggiano nel suo libro Sociability ci parla del crollo della qualità dei contenuti giornalistici causata dalla necessità di una concorrenza di solo prezzo:

Cinque minuti massimo. Il tempo di trovare un altro articolo – di un’altra testata italiana, magari scritto da un altro povero cristo dall’altra parte della città, che a sua volta l’aveva ricopiato da un altro – e “ricicciarlo”. Dicesi ricicciarlo: riscriverlo quel tanto che bastava da renderlo non imputabile di plagio e minimamente originale per l’algoritmo di Google News, sempre affamato di nuovi contenuti. Ecco perché, cari lettori, quando fate una ricerca su Google vi ritrovate vagonate di articoli tutti simili tra loro tipo “Come vedere la Juve in streaming” o “A che ora parla XY”.

E di come questo processo di "adattamento[1] al mercato" non abbia comportato solo un aumento di contenuti scopiazzati, scritti senza approfondimento, ma un tentativo di "hackerare" l'interesse delle persone. Attraverso l'uso di titoli ad effetto (o clickbait[2]): "una didascalia sufficientemente intrigante e misteriosa, l’obiettivo è non rivelare né troppo né troppo poco del contenuto". Oggiano ci porta alcuni esempi delle prime testate online che ci hanno puntato sopra moltissimo[3].

Conseguenze negative per i lettori[modifica | modifica sorgente]

In seguito qualcosa è sfuggito di mano e si persa l'attenzione e la cura del testo, del contesto, del lettore:

Abbiamo trasformato i giornali in “macchine sforna url”. Fabbriche di produzione di contenuti, ognuno privo di legami, analisi, letture e collegamenti con altre informazioni. Da leggere, consumare e abbandonare. Abbiamo tolto le storie dal contesto. Rinunciato a essere i curatori.

Guadagni facili per editori, influencer[modifica | modifica sorgente]

Giornalisti con spirito più imprenditoriale che molleranno la redazione per costruirsi il proprio progetto personale.

  • Nel 2021 Casey Newton ha mollato la redazione di The Verge per farsi la sua newsletter personale, già nei primi mesi ha raccolto oltre duemila abbonati paganti: a dieci dollari ciascuno, fa ventimila dollari al mese.
  • Azeem Azhar, ex corrispondente dell’«Economist», dice di guadagnare una cifra a sei zeri con la sua newsletter incentrata sul tech: «Non mi sono mai sentito così libero in venticinque anni di giornalismo».
  • Andrew Sullivan, star del «New York Magazine», ha lasciato dopo alcune tensioni con l’editore e ha creato il suo prodotto, raccogliendo sessantamila lettori ancora prima di inviare la prima mail: «È meraviglioso scrivere solo per i propri lettori. È come tornare ai tempi dei blog». Ritorno al futuro.

Com'è potuto accadere?[modifica | modifica sorgente]

Da un lato crisi da parte degli editori:

Il trend è dovuto a un mercato sempre più in crisi (negli ultimi anni il numero dei giornalisti nelle redazioni USA si è dimezzato e durante la pandemia in almeno trentamila sono stati mandati a casa o hanno subito riduzioni di stipendio) ma anche a un nuovo sviluppo del rapporto tra lettori e autori

Dall'altro:

«Prima i lettori erano affezionati a una testata» ha spiegato Casey Newton. «Adesso seguono singoli scrittori, youtuber o podcaster. E iniziano a essere disposti a pagare per supportarli.» Negli ultimi vent’anni noi giornalisti abbiamo usato inconsciamente e invano parole diverse per differenziare il giornalismo “vero” da quello che ci stava avvenendo attorno: i blogger sui blog, gli user-generated content sul web, gli youtuber su YouTube, i fotografi improvvisati su Instagram, gli influencer sui social. «La nostra ostilità verso quello che stava succedendo è comprensibile», ha scritto il Reynolds Journalism Institute «la nostra negazione no.»

Abbiamo solo perso un’occasione [...] «ci rifiutiamo di guardare la democratizzazione del mestiere avvenuta con la rete».

Note[modifica | modifica sorgente]

  1. Il termine adattarsi fa pensare proprio al senso Darwiniano della parola: survival of the fittest
  2. la pratica di ingigantire e distorcere il lancio di un articolo in maniera sensazionalistica e volutamente ambigua, in modo che l’utente – timoroso di perdersi un contenuto decisivo – non possa resistere alla tentazione di cliccare.
  3. "Per anni in Italia, i maestri sono stati quelli di «Libero», i cui lanci ormai epici sono stati addirittura messi in una rassegna da «Vice». Due su tutti. Primo: foto sensuale di Francesca Immacolata Chaouqui, collaboratrice del Vaticano finita in uno scandalo. E il titolo: “Sberleffo della Papessa a Papa Bergoglio: ‘Buon natale, ca...’”. Percezione dell’articolo: ha scritto cazzo al papa. Realtà: i puntini di sospensione servivano a nascondere il più innocente messaggio “Buon Natale, capo”. Consiglio: i puntini di sospensione stanno al clickbaitista come il martello sta a Thor. Sono la sua arma principale, lo strumento micidiale per farvi abboccare. Quando li vedete, state all’erta. Secondo lancio mitologico: foto di Alberto Stasi – ragazzo condannato per il famigerato omicidio di Chiara Poggi che per anni ha riempito le cronache italiane – circondato dai carabinieri. E titolo sensazionalistico: “Clamorosa evasione dal carcere di Stasi”. Percezione: Stasi è fuggito. Realtà: l’evaso è tale «Predan Zonic, cinquantadue anni, origini serbe», il cui unico grado di relazione con la vicenda di Stasi è l’essere detenuto nello stesso carcere... “di Stasi”, a Bollate. Uso raffinatissimo e geniale di foto, parole e sintassi. Pensate se tutto quel talento del clickbaitista venisse valorizzato al servizio di compiti meno ingannevoli e più nobili."