Riassunto studio Femminicidio in Italia: una critica al discorso femminista di genere e una lettura costruttivista dell'identità umana

Da Tematiche di genere.
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Link allo studio completo: https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0011392115625723

La teoria del discorso applicata alla narrazione sul “femminicidio” e critiche[modifica | modifica sorgente]

Secondo la teoria del discorso, i discorsi sono intesi come rappresentazioni di una realtà sociale che influenzano a loro volta le rappresentazioni attraverso un processo di selezione dei significati e di sedimentazione della conoscenza. Più nello specifico, se tale teoria viene applicata al discorso sul “femminicidio”, tale discorso può essere visto come una narrazione che ridefinisce la categoria neutrale dell’omicidio delle donne in termini femministi/politici e, così facendo, costruisce il fenomeno sociale della violenza contro le donne come una questione di genere.

La letteratura internazionale mostra come tale lettura sia diventata dominante nelle politiche istituzionali e in diverse aree del mondo accademico. Alcuni studiosi, così come alcuni membri della società civile, hanno sollevato critiche sull’integrazione del quadro di genere a livello politico e accademico, sottolineando che il complesso fenomeno sociologico della violenza venga così ridotto a un’interpretazione parziale. Un’altra specifica corrente di critica si concentra sull'attenzione selettiva verso le vittime femminili della violenza maschile, mentre la sofferenza degli uomini eterosessuali rimane ignorata. Inoltre, altri autori sostengono che il ruolo simbolico del padre risulti intaccato da una rappresentazione normalizzata degli uomini come una minaccia sociale per le donne.

Questo articolo si propone di contribuire al corpus di critiche esistenti sostenendo che la ripetizione e la normalizzazione di una semplice formula di genere possa incoraggiare una lettura superficiale e troppo semplificata della violenza come prodotto meramente culturale, e impedire di assumere una visione più ampia che permetta di cogliere la complessità di un fenomeno che è sia sociale che psicologico. Il discorso del “femminicidio” porta infatti avanti il paradigma del costruttivismo sociale radicale, un approccio che nega le dimensioni relazionali della biologia e della cultura nella costruzione dell’identità sessuata e concettualizza gli esseri umani come soggetti malleabili che sono incoraggiati a modificare la loro identità secondo i discorsi che circolano nella società esterna. Per riassumere, crediamo che fingere che le donne vengano uccise per motivi esclusivamente culturali sarebbe incompleto e potrebbe portare a strategie istituzionali inefficaci contro il femminicidio.

Il genere[modifica | modifica sorgente]

Da un punto di vista linguistico, il genere è un sistema grammaticale di classificazione dei nomi che organizza la conoscenza del mondo esterno. In antropologia e sociologia il genere è considerato come un insieme di comportamenti che la società prescrive a uomini e donne in un contesto culturale specifico. Questo concetto di genere è stato intrecciato dalle femministe della seconda ondata con una critica della disuguaglianza tra i sessi nella società patriarcale per mostrare come la cultura tradizionale ponga le donne in ruoli specifici e attribuisca a questi ruoli un valore di inferiorità e subordinazione agli uomini. Finché si sostiene che il genere è la rappresentazione culturale dei sessi maschile e femminile, la definizione non è problematica. Questa interpretazione implica il riconoscimento del binomio sesso/genere: in altre parole si riconosce l'esistenza di un corpo biologico sessuato così come un insieme di ruoli che sono legati a ciascun sesso in una data cultura e società. Diventa più complicato quando l'esistenza di un corpo biologico sessualmente differenziato viene messa in discussione. Questo sforzo filosofico è portato avanti dai teorici radicali costruttivisti femministi che sostengono che un neonato diventi maschio o femmina in base al discorso a lui riferito, ovvero in base al ruolo a lui attribuito dalla società. Questo approccio, che si è diffuso negli studi culturali e umanistici con la convergenza dell'attivismo LGBTQI nei movimenti femministi della terza ondata e negli studi di genere, sostiene una comprensione degli individui come semplici esseri culturali. Il risultato radicale di questa corrente di pensiero è che il corpo è ridefinito come un oggetto malleabile che può essere modificato per liberare il soggetto da un’identità imposta discorsivamente.

Il presente articolo sostiene che il genere sia un utile strumento analitico per studiare l’influenza della cultura sull’identità e sulla società.

Questa posizione implica il riconoscimento della natura biologica dell’essere umano che, in relazione alla cultura e alle sue interazioni con altri esseri, plasma la socialità. Gli autori dell’articolo sono invece in disaccordo con le ipotesi radicali che ritengono che l'identità sessuale sia un fatto discorsivo e con una concezione dell’essere umano come interamente plasmato da entità culturali. Inoltre, questo discorso costruttivista sociale potrebbe incoraggiare uomini e donne a percepire il loro sé come meramente culturale, staccato dalla componente biologica. Paradossalmente, un discorso che predica la liberazione degli esseri umani dai vincoli biologici potrebbe portare al risultato opposto: coinvolgere gli individui in continui incitamenti ad affermare identità e relazioni determinate dalla cultura.

Teoria costruttivista sociale sul genere e violenza contro le donne[modifica | modifica sorgente]

Il discorso sulla violenza di genere sostiene che gli uomini uccidano le donne per le stesse ragioni che li inducono a stuprare, picchiare, umiliare, guardare la pornografia e comprare sesso dalle prostitute: autorizzazione da parte della cultura a esprimere un controllo sulle donne.

Dal punto di vista del costruttivismo sociale, tutti gli atti all’interno dell’ampio significante etichettato “violenza di genere” sono sottoprodotti di una costruzione maschile della conoscenza umana; viene dunque sostenuto che ogni significato caratterizzato dalla rappresentazione di genere delle donne sia una costruzione patriarcale della donna come inferiore ed etero-normativa. Pertanto, la rappresentazione stessa è una discriminazione, e di conseguenza, violenza. Di conseguenza, il femminicidio è posto sotto lo stesso ombrello della rappresentazione sessista dei corpi femminili. Questa relazione paradigmatica tra ordine reale e ordine simbolico è il fondamento teorico della crociata delle femministe radicali per una riforma del linguaggio sessista e la cancellazione degli stereotipi di genere nei media. In questo senso, ogni marcatore di identità sessuata è inteso in termini di discriminazione, anche quando riflette ruoli antropologici sviluppati attraverso l'interconnessione di cultura e biologia umana.

Questo discorso paradigmatico deriva e contribuisce a rendere popolare quella che nelle scienze sociali viene solitamente identificata come teoria della violenza di genere, una teoria che si basa su una critica sociale del patriarcato e legge la violenza contro le donne come un fenomeno culturale strutturale di disuguaglianza di genere. Secondo questa teoria, uomini e donne imparano nel corso della loro vita identità e ruoli di genere normativi: le donne stabiliscono la loro femminilità come sottomessa, mentre gli uomini sono incoraggiati ad essere assertivi e ad usare forza fisica.

Critiche alle teorie di genere sulla violenza contro le donne[modifica | modifica sorgente]

Le teorie di genere sulla violenza contro le donne sono criticate principalmente sotto tre aspetti: per l’equazione potere/violenza, per essere parziali e obsolete. La studiosa femminista postcoloniale Bell Hooks mostra come la violenza attraversi i generi, coinvolti sia come vittime che come carnefici.

Esponendo la pervasività della violenza, e facendo luce sul ruolo delle donne nel mantenerla, Hooks smonta l’equazione violenza/malattia.

Il sociologo americano Richard Felson mette in discussione l’assioma del potere alla base delle teorie femministe sulla violenza e dice che il potere è una caratteristica delle relazioni tra le persone, piuttosto che una caratteristica individuale. Di conseguenza, il potere in una sfera della vita non si trasferisce necessariamente ad altre sfere.

Felson suggerisce di guardare alle relazioni di genere in termini di interdipendenza piuttosto che di potere. La sociologa italiana Consuelo Corradi fa notare che l’equazione potere/violenza non è più plausibile oggi in Italia in quanto tale equazione non coglie importanti cambiamenti nello status delle donne e nell’identità maschile negli ultimi 40 anni.

Sostenere che gli uomini come classe sociale indulgano alla violenza per difendere il loro vantaggio di potere sulle donne è, secondo Corradi, una posizione teorica che non offre alcun tipo di vantaggio per la risoluzione del problema.

Corradi non sostiene che in Italia la cultura patriarcale sia completamente sradicata, ma che il patriarcato non sia più il modello relazionale dominante e quindi sarebbe anacronistico continuare a interpretare la violenza contemporanea con lenti teoriche elaborate in un contesto sociale precedente molto diverso.

Corradi suggerisce inoltre di analizzare la molteplicità dei fattori che concorrono all'espressione della violenza attraverso tre categorie: macro fattori (politiche sociali, soglia di tolleranza sugli episodi di violenza e ruolo della comunità), fattori intermedi (ruoli di genere nella società e nella specifica coppia, posizione di potere dell'aggressore e della vittima, caratteristiche socioeconomiche) e micro fattori (caratteristiche specifiche di relazione, comunicazione e stato emotivo dei soggetti coinvolti).

Gli autori dell'articolo sostengono che il discorso del “femminicidio” in Italia abbia messo in atto una specifica spiegazione di genere relativamente a tutti i casi di omicidio di donne da parte di uomini, una spiegazione che si basa sull’obsoleta equazione potere/violenza e sull’esclusione di una molteplicità di variabili di fatto dibattute dai sociologi.

Tale enfasi sulla dimensione macro culturale della violenza contro le donne, che si realizza attraverso il discorso del “femminicidio”, potrebbe avere implicazioni negative sulla comprensione pubblica delle relazioni di genere.

Il discorso di genere in Italia: La lotta culturale contro il femminicidio[modifica | modifica sorgente]

Il discorso di genere sulla violenza poggia dunque su due presupposti impliciti:

  • “la violenza maschile contro le donne ha origine nella cultura patriarcale” e
  • “esiste un’associazione tra la violenza contro le donne e le rappresentazioni delle donne”.

Questi presupposti sono radicati nella narrazione del “femminicidio”.

In quanto al termine stesso, “femicide” in inglese ha due significati principali. Un’accezione neutra, impiegata anche in sociologia e criminologia, che significa “omicidio di una donna”, senza alcun riferimento alle cause o al colpevole dell'omicidio. Il secondo significato è politico e di genere, in quanto implica che l'omicidio sia commesso per motivi riconducibili al genere della vittima.  

In Italia “femicide” è stato tradotto approssimativamente dagli anni '90 con i due termini “femicidio” e “femmicidio”. Questi due termini sono stati usati nei circoli femministi italiani e in specifiche pubblicazioni accademiche, ma non sono mai esplosi nel discorso pubblico e mediatico con la stessa frequenza e potenza del neologismo più recente “femminicidio”.

La versione più recente è stata introdotta in Italia nel 2006 all’interno di una riflessione femminista condotta dall'avvocato Barbara Spinelli[1] sulle strutture politiche impiegate dalle attiviste latino-americane. Pertanto, il termine “femminicidio” è stato adottato nel discorso politico italiano con il significato di “omicidio maschile misogino di donne”. Nel contesto italiano, il concetto di “femminicidio” è prevalentemente applicato ad episodi di violenza intima e familiare.

Il problema con questo termine è che ogni volta che si usa la parola “femminicidio” si implica che una donna sia stata uccisa a causa del suo genere, mentre altri fattori e quadri teorici per dare un senso alla violenza vengono trascurati. In altre parole, l’adozione acritica di questo termine e la sua successiva divulgazione hanno permesso una normalizzazione parallela del discorso di genere sulla violenza contro le donne e sul femminicidio, che come abbiamo visto prima suggerisce che la violenza maschile abbia origine nelle rappresentazioni sessiste tipiche della società patriarcale. In poche parole, la narrazione sul femminicidio omogenizza casi differenti riconducendoli ad una matrice comune.

Il legame tra cultura mediatica e femminicidio è stato poi fatto proprio dai politici durante la campagna elettorale del 2012 - 2013. In vari discorsi pubblici si è sottolineato il legame tra rappresentazione stereotipata, oggettivizzazione della donna e violenza.

Il caso Boldrini - Barilla[modifica | modifica sorgente]

Il 19 giugno 2013 il Parlamento italiano ha convertito in legge nazionale la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Durante un evento istituzionale tenutosi in tale occasione, la Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini ha espresso l'auspicio che in Italia si avvii una riflessione sul ruolo dei media nel "sensibilizzare la società sull'intollerabile gravità della violenza contro le donne".

Come esempio del ruolo dei media nella normalizzazione culturale della violenza contro le donne, ha citato gli stereotipi trasmessi dalle pubblicità televisive. Pochi giorni dopo, il presidente di Barilla ha scatenato l’indignazione di femministe e intellettuali di sinistra, nonché un boicottaggio globale promosso dalla comunità LGBTQI, con il suo commento

“Laura Boldrini non capisce bene che ruolo svolge la donna nella pubblicità: è madre, nonna, amante, cura la casa, cura le persone care, oppure fa altri gesti e altre attività che comunque ne nobilitano il ruolo”.

Questo episodio si è verificato nello stesso periodo in cui in Italia stava prendendo forma un’emergenza mediatica per quanto riguarda i casi di femminicidio, in realtà non innescata da alcun reale aumento dei casi. L'ondata mediatica è stata piuttosto il risultato di una maggiore esposizione nel dibattito pubblico del problema sociale della violenza nei confronti delle donne e del femminicidio, enfasi originariamente derivata dalla mobilitazione femminista per l'adozione del nuovo termine: “femminicidio”, rispetto al termine neutro “omicidio” ed espressioni come “delitto passionale” e “raptus/perdita di controllo” per indicare le uccisioni di donne che vengono uccise perché appartengono a una precisa categoria di genere che nella società patriarcale contemporanea è assegnata a uno status inferiore.

Diversi opinionisti si sono uniti alla causa e hanno contribuito alla costruzione del fenomeno del femminicidio come una piaga sociale pervasiva nelle coppie eterosessuali e radicata in una cultura patriarcale in cui le rappresentazioni stereotipate dei ruoli sessuali e del corpo delle donne sono normalizzate.

Durante la campagna elettorale del 2012 - 2013, il tema della violenza contro le donne è diventato centrale nel discorso politico, che ha rapidamente adottato il neologismo al punto che il termine “femminicidio” è entrato nel linguaggio comune con il significato di “omicidio di una donna in quanto donna”. L’incidente Boldrini / Barilla è un caso emblematico che rivela i temi chiave del discorso sul femminicidio in Italia: stereotipi di genere e radici culturali della violenza contro le donne.

Teoria del discorso di Foucault[modifica | modifica sorgente]

Secondo la teoria del discorso di Foucault, la riproduzione di insiemi di assunti, che gradualmente guadagnano consenso e diventano senso comune, porta all’affermazione di una rappresentazione fissa e parziale della realtà e alla parallela marginalizzazione di altri discorsi concorrenti.

Gli autori collegano questa teoria al discorso sul “femminicidio”, sottolineando come esso porti a una rappresentazione parziale del fenomeno e delle implicazioni connesse ed escluda una moltitudine di variabili della violenza, in particolare escludendo la dimensione psicologica interiore degli individui, contribuendo ad avanzare un paradigma costruttivista dell’umanità e della società.

La relazione uomo - donna viene rappresentata come un irriducibile conflitto e una lotta per il potere, ed è soggetta a continui messaggi che dipingono il quadro di un conflitto di genere irriducibile.

Allo stesso tempo, uomini e donne sono esposti a narrazioni di genere che riducono le differenze di sesso da una dotazione biologica a un orientamento di genere modellato culturalmente. In questi discorsi, gli orientamenti di genere possono essere apparentemente determinati in autonomia dall'individuo con l’ausilio di tecniche chirurgiche di trasformazione del corpo e con l’aiuto di tecniche linguistiche di trasformazione degli archetipi.

La microfisica del potere rappresenta nella teoria foucaultiana la fine tragica e forse un fallimento irreversibile della polis:

  • il fallimento di un’azione comunicativa orientata all'accordo collettivo, e
  • il fallimento della politica che si arrende ai meccanismi di un controllo sociale organizzativo e sistemico.

Questo scenario può essere letto anche attraverso la teoria della sfera pubblica di Jürgen Habermas come colonizzazione sistemica dei mondi di vita: interferenza sistematica di imperativi esterni dettati dalle burocrazie all’interno di una sfera di comunicazione individuale.

Ad avviso degli autori, la colonizzazione dei mondi di vita è esattamente ciò che è accaduto nella definizione del “femminicidio” come grande problema sociale in Italia.

Infatti, il concetto stesso di “femminicidio” è stato costruito semanticamente all’interno di specifici gruppi di interesse e del sistema politico e non è stato il risultato di un confronto pubblico con altri gruppi della società civile.

Habermas ha denunciato con veemenza il tentativo di colonizzazione sistemica di quegli ambiti della vita in cui i problemi dovrebbero essere risolti attraverso un libero dibattito nella sfera pubblica basato su un’azione comunicativa orientata all'accordo.

Nei domini formalmente organizzati, il meccanismo di comprensione reciproca nel linguaggio, essenziale per l'integrazione sociale, è parzialmente annullato e alleggerito dai mezzi di governo.

Conclusioni[modifica | modifica sorgente]

Gli autori auspicano una consapevolezza da parte dei sociologi riguardo le specifiche origini politiche della visione di genere della società. Allo stesso modo, raccomandano cautela nell’uso del termine femminicidio, poiché tale termine è sovraccarico di significati che vanno ben oltre la semplice identificazione del sesso biologico della vittima.

Riaffermare l’elemento umano nel dibattito sociologico sul femminicidio significa riunire altri discorsi, altre interpretazioni della violenza che aiuterebbero a recuperare una parte della complessità del fenomeno della violenza e l'interazione tra natura e cultura che viene trascurata dal discorso culturale generale, che al contrario intende spiegare tutti i casi di violenza contro le donne con la stessa formula del potere patriarcale.

Tornando alla visione di Habermas e Foucault sulla formazione del discorso, la sociologia potrebbe certamente svolgere un ruolo nel favorire un vero confronto comunicativo a livello pubblico e innescare la liberazione della sfera pubblica dai discorsi dei media, parziali sia in termini di contenuto che di rappresentatività sociale.

Un modo per svolgere questo compito sarebbe quello di analizzare i diversi discorsi che competono e si intersecano con quello della violenza di genere e che rimangono esclusi dalla formazione del sapere egemonico. Al momento, questa egemonia sembra essere stata conquistata dal costruttivismo sociale, diventato la parola d’ordine di fronte a qualsiasi questione sociale.

Note[modifica | modifica sorgente]

  1. Autrice voce "Femminicidio" x Enciclopedia Treccani. Femminista. Attivista x i diritti umani bandita dalla Turchia.