Capro espiatorio, autonarrazioni senza contraddittorio e gogna pubblica

Da Tematiche di genere.
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Origine del capro espiatorio

Nell’epoca antica, tra gli Ebrei, quando arrivava il giorno dell’espiazione, il sacerdote di una comunità prendeva un capro, lo caricava simbolicamente di tutti i peccati e le malefatte della stessa comunità e lo cacciava nel deserto: il capro espiatorio. Più tardi le città greche utilizzarono un metodo simile: quello del pharmakos, “il maledetto”. Prendevano o compravano un uomo considerato particolarmente brutto o deforme e lo nutrivano a spese della città. Un giorno stabilito, lo scacciavano a pietrate e frustate. Come ha raccontato Isabel Wilkerson in Caste. The origins of our discontents, era un modo per scaricare sull’“altro” tutti i peccati della città e per purificare tutti coloro che vi abitavano. Un emarginato, un deforme, un diverso era perfetta incarnazione del male, comoda rappresentazione di ogni sventura, visibile forma di ogni peccato e colpa. La sua espulsione, condotta nel più palese e rumoroso dei modi, era lo strumento che la comunità aveva per ritrovare la propria sicurezza, liberarsi dei propri peccati e tornare a immaginarsi libera da ogni imperfezione.

Nel corso della storia umana, altre società o governi hanno avuto una qualche forma di capro espiatorio:

  • l’Inquisizione spagnola del Medioevo
  • la caccia alle streghe tra il Quattrocento e l’Ottocento
  • le persecuzioni giacobine della Rivoluzione francese
  • le guardie rosse della Rivoluzione culturale cinese
  • gli informatori della polizia segreta della Germania Est
  • le persecuzioni contro i presunti comunisti nell’America maccartista degli anni Cinquanta.

In tutti i casi, la violenza contro i singoli o le minoranze era usata per affermare la purezza di un’ideologia o l’istituzione di una maggioranza.

Dall’Appointment internet al Performance internet[modifica | modifica sorgente]

Poi è arrivato internet.

Due i prerequisiti che hanno catalizzato il cambiamento, attorno all’inizio degli anni Dieci. Primo, l’avvento degli smartphone: ogni barriera fisica è scomparsa, grazie alla navigazione da mobile la nostra autonarrazione è diventata tecnicamente possibile a ciclo continuo. Secondo, l’esplosione dei social. Il potere è finito in mano a un gruppo di pochissime piattaforme; i blog e i forum sono stati abbandonati; le community hanno lasciato il passo ai singoli creator. Dall’Appointment internet siamo passati al “Performance internet” (neologismo mio, fa schifo, lo so): singoli con una massa di migliaia di follower che postano la loro performance (sotto forma di post, storia o altro) a un orario indistinto per un pubblico indistinto che la vedrà in momenti indistinti. Tutto diventa parte di un feed dominato da un algoritmo, che a sua volta sarà visualizzato in maniera unica da ogni singolo utente. È difficilissimo trovare un’intera esperienza condivisa tra più persone, visto che ognuno ha il suo angolo e punto di vista. Nel Performance internet la moneta corrente – quella capace di dare visibilità, incentivi sociali e quindi incentivi economici – è la performance stessa. Devi agire, devi comunicare e devi fare bella figura.

E dall’alba dei tempi credo abbiamo due modi di fare bella figura: uno per esposizione e uno per contrapposizione. Il primo consiste nel mostrare le nostre qualità e nascondere i nostri difetti. Il secondo, più estremo, nel condannare i presunti difetti degli altri. Condannare qualcuno, metterlo alla gogna con ironia, può farci sentire meglio con noi stessi. Più intelligenti, più buoni, ironici, cosmopoliti, sagaci, taglienti. Ci fa sentire persone migliori moralmente, e quindi degne di ricompensa social: che sia in ordine crescente un like, un apprezzamento, una ricondivisione, una richiesta d’amicizia o una collaborazione con un brand. Eccola, la scala della ricompensa social.

Se la valuta dell’autonarrazione social per esposizione è la performance (di cui parleremo nei capitoli dedicati ai creator e ai brand), quella dell’autonarrazione per contrapposizione è la rabbia, l’indignazione. Quella che Amy Fleming, giornalista della Bbc ha definito «l’emozione cruciale del XXI secolo». Se ci pensate, fino a poco tempo fa mostrare la propria rabbia era considerato segno di debolezza psicologica e inaffidabilità sociale. Quando i contatti erano prevalentemente fisici, la persona che in pubblico mostrava continuamente la sua rabbia – sentimento premonitore di un conflitto che sarebbe potuto sfociare in un attacco fisico – era vista con diffidenza, giudicata come non pienamente matura e incapace di tenere sotto controllo le sue emozioni. «Un comportamento rabbioso ha notevoli costi economici» ha spiegato Nadja Heym, psicologa della Nottingham Trent University specializzata nei comportamenti antisociali. «Ha un impatto sulle relazioni, sulla performance al lavoro, sul benessere mentale.»

Da quando eravamo nelle caverne, ogni volta che ci sentiamo minacciati, provocati o in pericolo di vita, siamo programmati per avere la classica risposta fight or flight. [...]Con l’uso dei social e degli smartphone, il ciclo indignazione-esplosione di rabbia-rilassamento-piacere diventa continuo. Ci ritroviamo in uno stato di allerta perenne, siamo circondati dalla rabbia e allentiamo loro performance (sotto forma di post, storia o altro) a un orario indistinto per un pubblico indistinto che la vedrà in momenti indistinti.

E a due secoli dalla sua abolizione, ha fatto ritornare la gogna pubblica. È un termine che ho sentito usare spesso in questi due anni, ma di cui non avevo mai compreso il significato storico. All’inizio era un collare in ferro attaccato a una colonna a cui era legato il condannato. Più tardi venne sostituito con la classica tavola di legno con tre buchi in mezzo, in cui il malcapitato doveva infilare la testa e le mani (quando i buchi comprendevano anche i piedi, si parlava di “berlina”). Durante il Medioevo la pena della gogna era destinata ai condannati per reati minori: bestemmie, prostituzione, piccoli furti. Il malcapitato veniva immobilizzato alla tavola di legno, spesso con appeso un cartello in cui era scritto il reato commesso. Veniva trascinato negli incroci più frequentati della città o nei luoghi dove si teneva il mercato, per essere esposto a quanti più occhi possibili. Quindi veniva lasciato lì per qualche ora o per un giorno: ventiquattro ore, incredibile come la storia ritorni con tutti i suoi dettagli. La folla poteva schernirlo a suo piacimento: c’era chi gli ricopriva il volto di letame, chi gli lanciava sassi o verdure, chi gli faceva il solletico, chi lo ustionava.

Tra i personaggi illustri del passato messi alla gogna, ci fu lo scrittore britannico Daniel Defoe, quello di Robinson Crusoe. Nel 1702 scrisse un pamphlet ironico e ferocissimo contro il re e la Chiesa (La via più breve con i dissenzienti). Ma come Justine Sacco non si vide riconosciuta l’ironia. Venne condannato al pagamento di duecento marchi, rinchiuso in prigione e costretto alla gogna in tre giorni e in tre luoghi diversi di Londra. Il suo libro venne dato alle fiamme e il tipografo imprigionato. Mentre aspettava in carcere, scrisse il suo Inno alla gogna, in cui sbeffeggiava la barbarie del ludibrio della folla.

Nel testo Dafoe saluta la gogna come antica macchina di stato, inventata per punire addirittura i pensieri («la fantasia») degli uomini. Dice che è stata ideata per indicare presunte offese, ma al massimo può far divertire alcuni uomini: le «menti sagge e ferme» non si fanno intimorire. «Spesso la virtù» è punita dal vizio, e il «furor della strada» (oggi diremmo dei social) non distingue niente, si diverte a litigare e a parlar male della gente. La plebaglia non è guidata da nessuno: getta soltanto «fango», senza legge, né buon senso.

Trovo incredibile come a più di trecento anni di distanza il testo sia così attuale, sia nei meccanismi descritti che nelle parole usate. Su una cosa soltanto Defoe si sbagliava: l’assenza di conseguenze della gogna negli uomini più “saggi”. No, la gogna fu abolita pressoché ovunque durante l’Ottocento non solo perché era inutile, ma perché era considerata dai movimenti più liberali troppo brutale per le sue conseguenze sulla vita futura del cittadino. Già nel 1787 Benjamin Rush, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, scrisse un saggio in cui ne chiedeva la soppressione, perché considerava l’ignominia una punizione peggiore della morte. «Se prima era forse esistita nel cuore della persona condannata una scintilla di rispetto di sé, questa esposizione alla pubblica umiliazione la spegnerà del tutto» scriveva il «New York Times» nel 1867. L’umiliazione della gogna spegne nella vittima il desiderio di redimersi e preclude la speranza nella società che qualcuno possa mai tornare alla via dell’onorabilità. Avevamo già capito che uno dei maggiori passi verso la civiltà era quello di trasformare il nostro sistema della giustizia. E di passare il prima possibile da un processo privato con condanna pubblica a un processo pubblico con condanna privata. Più di trecento anni dopo, sui social, rischiamo di introdurre un nuovo sistema: nessun processo, né pubblico né privato. Solo la condanna. Pubblica.

Cosa ci insegna la legge[modifica | modifica sorgente]

La responsabilità penale è ovviamente diversa da quella politica, civile, morale, ma credo che ogni giorno sui social, prima di partire col linciaggio, dovremmo ispirarci ai principi del diritto di procedura penale: regole uguali per tutti, diritto alla difesa e presunzione d’innocenza.

Partiamo dal primo principio. Come cittadini, sappiamo (o possiamo sapere) esattamente quali siano le regole che dobbiamo rispettare all’interno dello stato in cui ci muoviamo. Sono regole scritte nel codice penale. Dicono cosa non dobbiamo fare e qual è la pena che potremmo pagare se trasgrediamo. «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.» Punto. Non una parola di più. Le regole sono chiare, e si applicano a tutti, senza differenza di censo, reddito, età, genere. Nelle gogne mediatiche, purtroppo, c’è questa cosa: le regole non sono né chiare né uguali per tutti. Ti puoi ritrovare linciato, licenziato o deriso e non sapere mai qual è l’esatta regola morale, sociale o civile che hai infranto. Provate a fare questo esercizio. Pensate a una delle tante polemiche da ventiquattro ore che avete visto sui social e provate a riassumere con una precisione degna del codice penale la regola che la persona al centro della polemica avrebbe infranto. Attenzione, non basta dire «Ha offeso Tizio» (sentirsi offesi non significa automaticamente avere ragione), «Non doveva dire quelle parole» (chi lo stabilisce cosa possiamo dire e cosa no?) oppure «Ha sbagliato tono» (non siete voi a stabilire qual è il tono giusto). Usate una formula impersonale, universale, e soprattutto il più possibile priva di interpretazioni: che sia cioè il meno equivocabile e soggettiva possibile, che valga in ogni luogo e momento. Se non la trovate, fermatevi un attimo prima di partecipare al linciaggio.

Secondo principio che esiste in una democrazia ma non sempre nelle gogne social: il principio del diritto alla difesa, o al giusto processo. «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.» Fantastico, cristallino. Il processo deve essere un dibattito tra pari, in cui l’accusato può parlare ogni volta che vuole e dare la sua versione per sostenere la sua innocenza. Alla fine, ci sarà un giudice terzo che valuterà le fonti, la loro credibilità, ragionerà indipendentemente e deciderà in un senso o nell’altro. Il processo è pubblico proprio perché ogni persona deve poter entrare liberamente in aula e poter vigilare sulla sua correttezza. Sui social, la condizione di parità assoluta non esiste ormai da un pezzo: per un malinteso senso di giustizia o empatia, tendiamo a credere a prescindere alla presunta vittima o alla persona che si è sentita offesa, assumendo ogni sua parola come certa e sufficiente alla condanna dell’altro. La cui versione dei fatti troppo spesso è l’ultima cosa che vogliamo ascoltare. Perché forse, intimamente, sappiamo che quella sua versione andrà a complicare la vicenda, e la vita è già abbastanza complicata, per questa polemica ci bastano le nostre battute. Comprensibile. Ma vi posso assicurare che il lavoro di raccolta delle voci e fonti diverse (da utente può bastare una ricerca su Google, o il clic di un link, non ci vuole molto) è un esercizio che – se coltivato – vi renderà la vita ancora più divertente, e vi farà scoprire mondi finora inesplorati. Oltreché rendervi anche più positivi nei confronti della vita: gli stronzi messi alla gogna, una volta approfonditi i casi, non sono quasi mai così stronzi.

Da qui, l’ultimo principio, forse il prerequisito di tutti gli altri: la presunzione d’innocenza. Dice che insomma qualcuno è innocente fino a prova contraria. Concetto semplice eppure complicatissimo da fare proprio. So benissimo che la liceità o la moralità di un certo comportamento spesso non ha nulla a che vedere con la sua rilevanza penale. Ma il principio resta: è l’accusa (cioè i linciatori) che dovrà preoccuparsi di dimostrare la colpevolezza di un linciato, mica il contrario. Nelle gogne è come se il processo si invertisse, sempre per quel fatto di non avere alcun dubbio. Prima condanniamo il malcapitato. Poi, se quello dimostrerà che ci siamo sbagliati, magari equivocando le sue parole o i suoi comportamenti, tanto meglio. Noi ce ne saremo già dimenticati, presi da un’altra polemica.