Viralità, Clickbait e FuckNews

Da Tematiche di genere.
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Dalle fake alle fuck news

Erano arrivate le edizioni online dei grandi («Time», «The New York Times», «National Geographic»): le previsioni parlavano di +1.000% di utenti l’anno. Una crescita mai registrata in nessun settore.

Era una bolla che si dissolse nel 2001, dopo l’Undici settembre, gli investitori si erano dati alla fuga e verso capitali più sicuri. La prima epoca del giornalismo online era finita. Dalle sue ceneri sarebbe rinato un giornalismo più modesto a caccia di qualcos’altro: la viralità.

La mail virale che cambiò il giornalismo online

Un tale Jonah Peretti, il futuro creatore di BuzzFeed, scrisse una mail alla Nike. L’azienda si è lanciata nella ricerca dell’interazione e customizzazione. E ha creato un sito in cui i clienti possono personalizzare le scarpe da acquistare, scegliendo colore e scritta. Peretti, che ha il gusto della polemica, sottopone la sua scritta: “Sweatshop”, ovvero luogo di lavoro che impone condizioni inaccettabili ai propri dipendenti. Un attacco frontale all’azienda che negli anni Novanta è stata pesantemente contestata per le condizioni di lavoro in paesi asiatici e del Terzo Mondo.

Il ventisettenne riceve una mail dalla Nike: richiesta rifiutata, è “slang inappropriato”. Quello che lui aspetta. Imbraccia il Mac e risponde: «La parola “sweatshop” è un segno di apprezzamento per i lavoratori che hanno sudato per me». E ancora: «Potete mandarmi un paio di scarpe del colore della pelle della bimba vietnamita di dieci anni che ha lavorato per farle?».

Il risultato è un lungo scambio di mail capolavoro di ironia e aggressività passiva, capace di far indignare qualunque lettore (indignazione, ricordate questa parola). Peretti lo inoltra a un gruppo di amici. Che a loro volta lo condividono con altri.

Nel giro di poche settimane, il thread viene letto da milioni di persone e diventa forse il più grande contenuto virale della storia di internet.

Lo sconosciuto Jonah Peretti, quello che non voleva fare la tesi, si ritrova in uno studio tv a dibattere di diritti dei lavoratori con il capo delle relazioni pubbliche di Nike.

Lui stesso non si capacita: «Perché sono qui io, invece delle persone che hanno dedicato la vita a combattere per i diritti umani?». Ecco un’altra dura legge dei media. Non conta solo chi combatte, ma chi fa arrivare agli altri la sua battaglia, sentita o meno. Pochissime verranno raccontate senza una storia appetibile, un protagonista carismatico o un antagonista intrigante.

Il Sacro Graal della viralità

Peretti parla di «media contagiosi» (la parola “virale” deve ancora diventare... virale).

Per essere contagioso, un progetto deve rappresentare «la più semplice forma di un’idea» e deve essere «spiegabile in massimo una frase». Capisce che, complice l’esplosione del lavoro in ufficio con connessione internet aziendale, sta nascendo un nuovo pubblico: noi. I bored at work. Gli impiegati annoiati al lavoro, vogliosi di contenuti sparsi e non necessariamente imprescindibili.


Gli ingredienti della viralità sono:

  • Indignazione (vedi le mail con la Nike)
  • Immedesimazione (vedi il numero per gli spasimanti indesiderati)
  • Divertimento (vedi il sito satirico sul razzismo).

La notizia viene ingegnerizzata con test A/B sempre più raffinati.

Un contenuto può uscire contemporaneamente in decine di versioni diverse per vedere quali funzionano meglio:

  • le immagini blu ottengono più like di quelle rosse; “questo“ o “questa“ (madre, padre, scoiattolo, ecc.) all’inizio di un titolo garantiscono più condivisioni.
  • Non conta l’oggetto dell’articolo ma l’emozione nel soggetto che lo legge. Perché se Google traffica in informazioni, il social network lo fa in emozioni. Le nostre.

«Content is about identity» dice Peretti. Il contenuto diventa un carburante per le nostre conversazioni. Le nostre conversazioni, a loro volta, diventano sempre di più propellente per una qualche emozione. E l’emozione, a sua volta, rischia di prevalere sul contenuto, diventando la nostra identità. Un contenuto che crea conversazioni, emozioni e disvelamento di identità è un contenuto destinato a diventare virale.

Uno dei pezzi più virali della storia di BuzzFeed è “The Dress”. Nel 2015 tale Caitlin McNeill ad un matrimonio scatta una foto al vestito che deve indossare alla cerimonia, e lo posta con una richiesta d’aiuto alla sua community: «Questo vestito è bianco e oro oppure blu e nero? Io e i miei amici non ci mettiamo d’accordo e stiamo impazzendo». A fine giornata, riceve cinquantamila risposte. Nel giro di poche ore, BuzzFeed riprende il rompicapo ottico: +40% di traffico, sondaggio da tre milioni di voti. Sulla (non) notizia ci si buttano tutti:

  • scrivono ritratti della donna che aveva postato la foto
  • offrono spiegazioni sociologiche
  • chiedono l’opinione a celebrity
  • interviste a esperti di percezione del colore. Quella di «Wired» a un neuroscienziato viene letta da trentatré milioni di persone.

Il pezzo, visto ad anni di distanza, aveva un bel po’ di ingredienti della viralità.

  • Era sintetizzabile in una frase immediatamente comprensibile (“Di che colore è questo vestito?”)
  • aveva un’immagine accattivante (meglio sporca e autentica che pulita ma distante)
  • ci attirava in un test
  • e soprattutto era un mezzo perfetto da condividere sui social per parlare di noi stessi: come vedevamo quel vestito
  • ma soprattutto come ci ponevamo con gli altri? Volevamo giocare e dire la nostra sul colore? Ci tenevamo a dire che snobbavamo quel dibattito che andava avanti da giorni? Oppure ne parlavamo contrapponendo la sua irrilevanza a notizie ben più importanti di cui secondo noi tutti avremmo dovuto occuparci? Non se ne usciva. Il pezzo era inutile
  • ma divertente
  • sfidante
  • intrigante

    Cinque minuti massimo. Il tempo di trovare un altro articolo – di un’altra testata italiana, magari scritto da un altro povero cristo dall’altra parte della città, che a sua volta l’aveva ricopiato da un altro – e “ricicciarlo”. Dicesi ricicciarlo: riscriverlo quel tanto che bastava da renderlo non imputabile di plagio e minimamente originale per l’algoritmo di Google News, sempre affamato di nuovi contenuti. Ecco perché, cari lettori, quando fate una ricerca su Google vi ritrovate vagonate di articoli tutti simili tra loro tipo “Come vedere la Juve in streaming” o “A che ora parla XY”.

    Il processo:
  • una didascalia sufficientemente intrigante e misteriosa
  • l’obiettivo è non rivelare né troppo né troppo poco del contenuto.
  • clickbait: è quella pratica di ingigantire e distorcere il lancio di un articolo in maniera sensazionalistica e volutamente ambigua, in modo che l’utente – timoroso di perdersi un contenuto decisivo – non possa resistere alla tentazione di cliccare.

    Per anni in Italia, i maestri sono stati quelli di «Libero», i cui lanci ormai epici sono stati addirittura messi in una rassegna da «Vice». Due su tutti. Primo: foto sensuale di Francesca Immacolata Chaouqui, collaboratrice del Vaticano finita in uno scandalo. E il titolo: “Sberleffo della Papessa a Papa Bergoglio: ‘Buon natale, ca...’”. Percezione dell’articolo: ha scritto cazzo al papa. Realtà: i puntini di sospensione servivano a nascondere il più innocente messaggio “Buon Natale, capo”. Consiglio: i puntini di sospensione stanno al clickbaitista come il martello sta a Thor. Sono la sua arma principale, lo strumento micidiale per farvi abboccare. Quando li vedete, state all’erta. Secondo lancio mitologico: foto di Alberto Stasi – ragazzo condannato per il famigerato omicidio di Chiara Poggi che per anni ha riempito le cronache italiane – circondato dai carabinieri. E titolo sensazionalistico: “Clamorosa evasione dal carcere di Stasi”. Percezione: Stasi è fuggito. Realtà: l’evaso è tale «Predan Zonic, cinquantadue anni, origini serbe», il cui unico grado di relazione con la vicenda di Stasi è l’essere detenuto nello stesso carcere... “di Stasi”, a Bollate. Uso raffinatissimo e geniale di foto, parole e sintassi. Pensate se tutto quel talento del clickbaitista venisse valorizzato al servizio di compiti meno ingannevoli e più nobili.

Prima vittima, la cura (nel senso di attenzione)

Francesco afferma che qualcosa è sfuggito di mano e si persa l'attenzione al testo, al contesto e al lettore.

Abbiamo trasformato i giornali in “macchine sforna url”. Fabbriche di produzione di contenuti, ognuno privo di legami, analisi, letture e collegamenti con altre informazioni. Da leggere, consumare e abbandonare. Abbiamo tolto le storie dal contesto. Rinunciato a essere i curatori.


Giornalisti con spirito più imprenditoriale che molleranno la redazione per costruirsi il proprio progetto personale.

  • Nel 2021 Casey Newton ha mollato la redazione di The Verge per farsi la sua newsletter personale, già nei primi mesi ha raccolto oltre duemila abbonati paganti: a dieci dollari ciascuno, fa ventimila dollari al mese.
  • Azeem Azhar, ex corrispondente dell’«Economist», dice di guadagnare una cifra a sei zeri con la sua newsletter incentrata sul tech: «Non mi sono mai sentito così libero in venticinque anni di giornalismo».
  • Andrew Sullivan, star del «New York Magazine», ha lasciato dopo alcune tensioni con l’editore e ha creato il suo prodotto, raccogliendo sessantamila lettori ancora prima di inviare la prima mail: «È meraviglioso scrivere solo per i propri lettori. È come tornare ai tempi dei blog». Ritorno al futuro.

Il trend è dovuto a un mercato sempre più in crisi (negli ultimi anni il numero dei giornalisti nelle redazioni USA si è dimezzato e durante la pandemia in almeno trentamila sono stati mandati a casa o hanno subito riduzioni di stipendio) ma anche a un nuovo sviluppo del rapporto tra lettori e autori

«Prima i lettori erano affezionati a una testata» ha spiegato Casey Newton. «Adesso seguono singoli scrittori, youtuber o podcaster. E iniziano a essere disposti a pagare per supportarli.»

Negli ultimi vent’anni noi giornalisti abbiamo usato inconsciamente e invano parole diverse per differenziare il giornalismo “vero” da quello che ci stava avvenendo attorno: i blogger sui blog, gli user-generated content sul web, gli youtuber su YouTube, i fotografi improvvisati su Instagram, gli influencer sui social. «La nostra ostilità verso quello che stava succedendo è comprensibile», ha scritto il Reynolds Journalism Institute «la nostra negazione no.»

Abbiamo solo perso un’occasione [...] «ci rifiutiamo di guardare la democratizzazione del mestiere avvenuta con la rete». E con i social.