Sociability di Francesco Oggiano

Da Tematiche di genere.
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  • dilagano conformismo, fake news e “fuck news” (quelle che ci fanno imprecare di indignazione)? Perché la rabbia sembra essere diventata lo stato d’animo prevalente online? Esiste davvero la “cancel culture”, e quanta vivacità intellettuale ci stiamo perdendo, per paura che ci prendano di mira per una frase postata su Facebook e mal interpretata? Come sono nate campagne global diffuse sui social e poi divenute movimenti quali il Black Lives Matter e il #MeToo? Perché le star e gli influencer stanno diventando i nuovi punti di riferimento anche su temi sociali, politici e ambientali? In che modo l’attivismo digitale sta cambiando le imprese e la politica?
  • SociAbility risponde a queste e molte altre domande, preparandoci al bivio che abbiamo davanti: saremo chiamati a scegliere tra la semplificazione e la complessità, l’indignazione fine a se stessa e le idee, i meri simboli e l’azione, l’illusione della perfezione e l’umanità, il narcisismo e la curiosità. E da queste scelte dipendono in gran parte il futuro dell’informazione, della democrazia e della vita sociale.
  • la paura di una censura dal “basso”. È la tentazione di scrivere (o non scrivere) esclusivamente per compiacere il pubblico, per evitare la sua indignazione o conquistare la sua condivisione. È quella tensione che ogni giorno ci spinge a pubblicare (o autocensurare) contenuti sul nostro profilo all’esclusivo scopo di ottenere like o evitare scivoloni, nonostante in cuor nostro fossimo dubbiosi sulla reale validità e onestà intellettuale di quel contenuto. Magari perché vogliamo aggiungere la nostra battutina, dare il nostro piccolo contributo o peggio silenziare la nostra opinione a proposito di una polemica da 24 ore o di una persona in quel momento sotto pestaggio social; per sentirci parte di un gruppo, evitare di essere linciati, instaurare nuove relazioni, consolidarne di vecchie.
  • carriere e vite vengano messe in discussione sulla base di post disallineati, battaglie ritenute indegne o frasi fraintese. Tanto più perché penso di aver contribuito io stesso a quel clima, prestandomi in tanti anni a scrivere o cavalcare quelle che mi piace chiamare “fuck news”: sono quelle notizie apparentemente perfette che ci fanno esclamare «c...» e che fanno salire l’indignazione degli utenti. Che, a causa di quella ricerca di consenso e indignazione, a volte ricondividiamo e amplifichiamo senza alcun approfondimento e verifica, facendo crollare il contesto e ogni forma di complessità. Troverete parecchi esempi: la newyorchese Amy Cooper che il giorno della morte di George Floyd subisce un linciaggio mediatico per un video in cui avrebbe finto di essere minacciata da un afroamericano (e che però fu veramente minacciata da un afroamericano); la fotografa Letizia Battaglia che si vede ritirare i suoi scatti per una campagna pubblicitaria perché, insieme alle auto Lamborghini, ritraggono delle bambine (e che però per una vita ha messo al centro della sua ricerca proprio le bambine); la giornalista Barbara Palombelli accusata di maschilismo perché si chiede se gli uomini violenti abbiano subito «un comportamento aggressivo dall’altra parte» (e che però stava introducendo il caso giudiziario di un uomo picchiato dalla moglie); la manager Justine Sacco licenziata e linciata in diretta mondiale per un tweet sulla presunta immunità dei bianchi all’Aids (una stupida battuta che nessuno aveva capito). Sono storie semplificate, utili alla nostra indignazione e al nostro posizionamento, valuta corrente dei social. È come se in nome di essi avessimo riportato in auge tre elementi storici che parevano ormai dimenticati: il capro espiatorio (un ariete che nell’epoca antica, nel rito ebraico, veniva caricato di tutti i peccati delle comunità e cacciato nel deserto per purificare simbolicamente la stessa comunità), il processo sommario (quello senza diritto alla difesa) e la gogna pubblica (quella tavola di legno in cui nel Medioevo il condannato infilava la testa e le mani, per essere poi aggredito dalla folla con lanci di verdure, sterco e pietre). Secoli dopo, ci sentiamo privi di dubbi, sulla nostra irreprensibilità come sulla colpevolezza del linciato del giorno. Esattamente come gli ebrei col capro, attribuiamo una crescita del nostro valore sociale alla segnalazione internettiana di altrui vizi e nostre virtù. Scopriamo che la nostra identità di attivisti virtuosi è monetizzabile. E ci adeguiamo di conseguenza: offrire la nostra solidarietà identitaria, condannare qualcuno con più forza, segnalare il nostro presunto impegno, ferite e indignazioni è il modo più efficace per posizionarci nei confronti di un pubblico o di un brand. E così, alcuni sono diventati “attivisti” senza attività, “impegnati” senza impegno, “coraggiosi” senza rischio. Pronti a difendere la libertà di parola purché uguale alla nostra. Ansiosi di includere persone diverse per colore della pelle, orientamento sessuale, identità di genere e tante altre caratteristiche identitarie, ma mai diverse per pensiero. Inclusivi sì, ma con chi è già dentro. Alla rivoluzione si sono legati i brand e i politici. I primi hanno stabilito nuovi patti di relazione con consumatori coscienziosi, ma pure ridefinito la loro identità: utilizzando, più che la loro immagine per combattere battaglie, le battaglie per definire la propria immagine. Partecipando, più che a un movimento, a un momento per operare la propria comunicazione. E non esitando a contraddire quei principi così tanto sbandierati (come la libertà di parola) in nome del profitto. I secondi – almeno i più abili – si sono adeguati alla velocità del feed, adottando quella che Nicholas Carr chiama “personalità Snapchat”, un dettaglio di intimità e una provocazione alla volta. E in mezzo noi. Quelli che tra un lavoro, un amore e un drink stanno sui social. I primi collaudatori che definiranno per gli anni a venire le dinamiche all’interno delle piattaforme sociali, che queste si concretizzino in brandelli di testo o in connessioni neuronali del metaverso. I bar del futuro. Noi che ora siamo a un bivio. Personale, intimo e politico del nostro stare sui social. Da una parte possiamo limitarci all’indignazione fine a se stessa, all’autopromozione finalizzata al conto corrente, alla rabbia finalizzata al valore sociale. Possiamo uccidere ogni tipo di complessità, sminuire ogni opinione smarcata dalla maggioranza, chiedere di cancellare opere e persone, eliminare quello strato di complessità che ci rende umani e ci permette di migliorare. Per paura di finire linciati, per conformismo da pigrizia intellettuale, convenienza di guadagnare follower. Dall’altra parte, possiamo sfruttare la bellezza commovente della rete. Possiamo cambiare pezzi di mondo grazie all’ubiquità che permette di riunirci e organizzarci abbattendo quasi tutti i limiti geografici, anagrafici e d’istruzione. Possiamo avviare imprese – commerciali, giornalistiche, politiche, solidali, satiriche – senza più il sostegno di un apparato formale o di una posizione privilegiata. Possiamo abbracciare la complessità, sforzarci di capire un pensiero che ritenevano indifendibile, empatizzare con gli stronzi (empatizzare solo con quelli come noi non significa empatizzare ma fare clan), consultare più fonti, sviluppare un senso critico, onorare le nostre fortune e rendere la nostra vita social più avventurosa. Come dicono quelli fighi, abbiamo una sfida ma anche una splendida opportunità. Possiamo scegliere tra le indignazioni e le idee, tra i simboli e le azioni, tra la perfezione e l’umanità, tra la semplificazione e la complessità. Se sceglieremo le prime opzioni, finiremo per trasformare i posti nati per raccontare i nostri segreti in posti che finiscono per nascondere noi stessi; li ridurremo ad accozzaglie di visioni di vittime e oppressori, a scontri di caratteristiche identitarie e simboli; a milioni di singole illusioni (le nostre) di conformismo scambiato per bontà, di codardia spacciata per virtù. Riusciremo a creare sui social quello che nessuna dittatura, mai, è riuscita a creare: un posto in cui il soffocamento della libertà di opinione è talmente diffuso da diventare onnipresente e impalpabile, quindi maledettamente efficace. Se sceglieremo le seconde opzioni, invece, trasformeremo i social – e la percezione di noi stessi – in un accrocchio di difetti e imperfezioni: non più impeccabile, ma vivo. Rinunceremo a essere schiavi dell’indignazione e del narcisismo, coltivando al loro posto curiosità e a volte sana rabbia, quella che ci permette di scoprire e magari cambiare minuscoli pezzetti di mondo. In questo libro provo a dare qualche strumento per prepararci a questo bivio: per capire ancora meglio come funzionano i social, e soprattutto come funzioniamo noi dentro i social, i bar del futuro. Per farlo, devo partire dal principio: da una lezione alla scuola di giornalismo, e dal momento in cui ricominciammo a raccontare le storie sui giornali online usando come driver la vostra indignazione: dall’esplosione delle “fuck news”.

Dalle fake alle fuck news

Erano arrivate le edizioni online dei grandi («Time», «The New York Times», «National Geographic»): le previsioni parlavano di +1.000% di utenti l’anno. Una crescita mai registrata in nessun settore.

Era una bolla che si dissolse nel 2001, dopo l’Undici settembre, gli investitori si erano dati alla fuga e verso capitali più sicuri. La prima epoca del giornalismo online era finita. Dalle sue ceneri sarebbe rinato un giornalismo più modesto a caccia di qualcos’altro: la viralità.

La mail virale che cambiò il giornalismo online

Un tale Jonah Peretti, il futuro creatore di BuzzFeed, scrisse una mail alla Nike. L’azienda si è lanciata nella ricerca dell’interazione e customizzazione. E ha creato un sito in cui i clienti possono personalizzare le scarpe da acquistare, scegliendo colore e scritta. Peretti, che ha il gusto della polemica, sottopone la sua scritta: “Sweatshop”, ovvero luogo di lavoro che impone condizioni inaccettabili ai propri dipendenti. Un attacco frontale all’azienda che negli anni Novanta è stata pesantemente contestata per le condizioni di lavoro in paesi asiatici e del Terzo Mondo.

Il ventisettenne riceve una mail dalla Nike: richiesta rifiutata, è “slang inappropriato”. Quello che lui aspetta. Imbraccia il Mac e risponde: «La parola “sweatshop” è un segno di apprezzamento per i lavoratori che hanno sudato per me». E ancora: «Potete mandarmi un paio di scarpe del colore della pelle della bimba vietnamita di dieci anni che ha lavorato per farle?».

Il risultato è un lungo scambio di mail capolavoro di ironia e aggressività passiva, capace di far indignare qualunque lettore (indignazione, ricordate questa parola). Peretti lo inoltra a un gruppo di amici. Che a loro volta lo condividono con altri.

Nel giro di poche settimane, il thread viene letto da milioni di persone e diventa forse il più grande contenuto virale della storia di internet.

Lo sconosciuto Jonah Peretti, quello che non voleva fare la tesi, si ritrova in uno studio tv a dibattere di diritti dei lavoratori con il capo delle relazioni pubbliche di Nike.

Lui stesso non si capacita: «Perché sono qui io, invece delle persone che hanno dedicato la vita a combattere per i diritti umani?». Ecco un’altra dura legge dei media. Non conta solo chi combatte, ma chi fa arrivare agli altri la sua battaglia, sentita o meno. Pochissime verranno raccontate senza una storia appetibile, un protagonista carismatico o un antagonista intrigante.

Il Sacro Graal della viralità

Peretti parla di «media contagiosi» (la parola “virale” deve ancora diventare... virale).

Per essere contagioso, un progetto deve rappresentare «la più semplice forma di un’idea» e deve essere «spiegabile in massimo una frase». Capisce che, complice l’esplosione del lavoro in ufficio con connessione internet aziendale, sta nascendo un nuovo pubblico: noi. I bored at work. Gli impiegati annoiati al lavoro, vogliosi di contenuti sparsi e non necessariamente imprescindibili.


Gli ingredienti della viralità sono:

  • Indignazione (vedi le mail con la Nike)
  • Immedesimazione (vedi il numero per gli spasimanti indesiderati)
  • Divertimento (vedi il sito satirico sul razzismo).

La notizia viene ingegnerizzata con test A/B sempre più raffinati.

Un contenuto può uscire contemporaneamente in decine di versioni diverse per vedere quali funzionano meglio:

  • le immagini blu ottengono più like di quelle rosse; “questo“ o “questa“ (madre, padre, scoiattolo, ecc.) all’inizio di un titolo garantiscono più condivisioni.
  • Non conta l’oggetto dell’articolo ma l’emozione nel soggetto che lo legge. Perché se Google traffica in informazioni, il social network lo fa in emozioni. Le nostre.

«Content is about identity» dice Peretti. Il contenuto diventa un carburante per le nostre conversazioni. Le nostre conversazioni, a loro volta, diventano sempre di più propellente per una qualche emozione. E l’emozione, a sua volta, rischia di prevalere sul contenuto, diventando la nostra identità. Un contenuto che crea conversazioni, emozioni e disvelamento di identità è un contenuto destinato a diventare virale.

Uno dei pezzi più virali della storia di BuzzFeed è “The Dress”. Nel 2015 tale Caitlin McNeill ad un matrimonio scatta una foto al vestito che deve indossare alla cerimonia, e lo posta con una richiesta d’aiuto alla sua community: «Questo vestito è bianco e oro oppure blu e nero? Io e i miei amici non ci mettiamo d’accordo e stiamo impazzendo». A fine giornata, riceve cinquantamila risposte. Nel giro di poche ore, BuzzFeed riprende il rompicapo ottico: +40% di traffico, sondaggio da tre milioni di voti. Sulla (non) notizia ci si buttano tutti:

  • scrivono ritratti della donna che aveva postato la foto
  • offrono spiegazioni sociologiche
  • chiedono l’opinione a celebrity
  • interviste a esperti di percezione del colore. Quella di «Wired» a un neuroscienziato viene letta da trentatré milioni di persone.

Il pezzo, visto ad anni di distanza, aveva un bel po’ di ingredienti della viralità.

  • Era sintetizzabile in una frase immediatamente comprensibile (“Di che colore è questo vestito?”)
  • aveva un’immagine accattivante (meglio sporca e autentica che pulita ma distante)
  • ci attirava in un test
  • e soprattutto era un mezzo perfetto da condividere sui social per parlare di noi stessi: come vedevamo quel vestito
  • ma soprattutto come ci ponevamo con gli altri? Volevamo giocare e dire la nostra sul colore? Ci tenevamo a dire che snobbavamo quel dibattito che andava avanti da giorni? Oppure ne parlavamo contrapponendo la sua irrilevanza a notizie ben più importanti di cui secondo noi tutti avremmo dovuto occuparci? Non se ne usciva. Il pezzo era inutile
  • ma divertente
  • sfidante
  • intrigante

    Cinque minuti massimo. Il tempo di trovare un altro articolo – di un’altra testata italiana, magari scritto da un altro povero cristo dall’altra parte della città, che a sua volta l’aveva ricopiato da un altro – e “ricicciarlo”. Dicesi ricicciarlo: riscriverlo quel tanto che bastava da renderlo non imputabile di plagio e minimamente originale per l’algoritmo di Google News, sempre affamato di nuovi contenuti. Ecco perché, cari lettori, quando fate una ricerca su Google vi ritrovate vagonate di articoli tutti simili tra loro tipo “Come vedere la Juve in streaming” o “A che ora parla XY”.

    Il processo:
  • una didascalia sufficientemente intrigante e misteriosa
  • l’obiettivo è non rivelare né troppo né troppo poco del contenuto.
  • clickbait: è quella pratica di ingigantire e distorcere il lancio di un articolo in maniera sensazionalistica e volutamente ambigua, in modo che l’utente – timoroso di perdersi un contenuto decisivo – non possa resistere alla tentazione di cliccare.

Per anni in Italia, i maestri sono stati quelli di «Libero», i cui lanci ormai epici sono stati addirittura messi in una rassegna da «Vice». Due su tutti. Primo: foto sensuale di Francesca Immacolata Chaouqui, collaboratrice del Vaticano finita in uno scandalo. E il titolo: “Sberleffo della Papessa a Papa Bergoglio: ‘Buon natale, ca...’”. Percezione dell’articolo: ha scritto cazzo al papa. Realtà: i puntini di sospensione servivano a nascondere il più innocente messaggio “Buon Natale, capo”. Consiglio: i puntini di sospensione stanno al clickbaitista come il martello sta a Thor. Sono la sua arma principale, lo strumento micidiale per farvi abboccare. Quando li vedete, state all’erta. Secondo lancio mitologico: foto di Alberto Stasi – ragazzo condannato per il famigerato omicidio di Chiara Poggi che per anni ha riempito le cronache italiane – circondato dai carabinieri. E titolo sensazionalistico: “Clamorosa evasione dal carcere di Stasi”. Percezione: Stasi è fuggito. Realtà: l’evaso è tale «Predan Zonic, cinquantadue anni, origini serbe», il cui unico grado di relazione con la vicenda di Stasi è l’essere detenuto nello stesso carcere... “di Stasi”, a Bollate. Uso raffinatissimo e geniale di foto, parole e sintassi. Pensate se tutto quel talento del clickbaitista venisse valorizzato al servizio di compiti meno ingannevoli e più nobili.

Prima vittima, la cura (nel senso di attenzione)

Francesco afferma che qualcosa è sfuggito di mano e si persa l'attenzione al testo, al contesto e al lettore.

Abbiamo trasformato i giornali in “macchine sforna url”. Fabbriche di produzione di contenuti, ognuno privo di legami, analisi, letture e collegamenti con altre informazioni. Da leggere, consumare e abbandonare. Abbiamo tolto le storie dal contesto. Rinunciato a essere i curatori.


Giornalisti con spirito più imprenditoriale che molleranno la redazione per costruirsi il proprio progetto personale.

  • Nel 2021 Casey Newton ha mollato la redazione di The Verge per farsi la sua newsletter personale, già nei primi mesi ha raccolto oltre duemila abbonati paganti: a dieci dollari ciascuno, fa ventimila dollari al mese.
  • Azeem Azhar, ex corrispondente dell’«Economist», dice di guadagnare una cifra a sei zeri con la sua newsletter incentrata sul tech: «Non mi sono mai sentito così libero in venticinque anni di giornalismo».
  • Andrew Sullivan, star del «New York Magazine», ha lasciato dopo alcune tensioni con l’editore e ha creato il suo prodotto, raccogliendo sessantamila lettori ancora prima di inviare la prima mail: «È meraviglioso scrivere solo per i propri lettori. È come tornare ai tempi dei blog». Ritorno al futuro.

Il trend è dovuto a un mercato sempre più in crisi (negli ultimi anni il numero dei giornalisti nelle redazioni USA si è dimezzato e durante la pandemia in almeno trentamila sono stati mandati a casa o hanno subito riduzioni di stipendio) ma anche a un nuovo sviluppo del rapporto tra lettori e autori

«Prima i lettori erano affezionati a una testata» ha spiegato Casey Newton. «Adesso seguono singoli scrittori, youtuber o podcaster. E iniziano a essere disposti a pagare per supportarli.»

Negli ultimi vent’anni noi giornalisti abbiamo usato inconsciamente e invano parole diverse per differenziare il giornalismo “vero” da quello che ci stava avvenendo attorno: i blogger sui blog, gli user-generated content sul web, gli youtuber su YouTube, i fotografi improvvisati su Instagram, gli influencer sui social. «La nostra ostilità verso quello che stava succedendo è comprensibile», ha scritto il Reynolds Journalism Institute «la nostra negazione no.»

Abbiamo solo perso un’occasione [...] «ci rifiutiamo di guardare la democratizzazione del mestiere avvenuta con la rete». E con i social.

Come Instagram è diventato la finestra sul mondo della Gen Z

Fino al 2019 Instagram a metà anni 10 era molto patinato. Attorno al 2018, la patina inizia a scrostarsi. Il social attraversa la sua fase punk: è alternativo. A inizio 2020, la contaminazione oltre che nella forma diventa anche tematica.

Nel 2019 ha permesso di condividere i post di altre persone all’interno di una propria storia. Da quel momento un post poteva essere ricondiviso da migliaia di utenti e diventare virale.

Il lockdown ha fatto il resto.

Vox Aymar Jean Christian, professore di Comunicazione alla Northwestern University spiega che: «La gente ha pensato: “È tutto chiuso, meglio postare qualcosa di politica”».

Qualche settimana dopo la morte di George Floyd, nero di Minneapolis deceduto dopo essere stato schiacciato a terra dall’agente Derek Chauvin durante un controllo di polizia. Quella morte, ripresa da più angolazioni, semplice da comprendere, dotata di un audio universale («I can’t breathe»), diventa forse la storia di cronaca nera più virale di tutti i tempi. Provoca indignazione, rabbia e attivismo, e li convoglia tutti su Instagram. Nel giro di un mese, la pagina dell’organizzazione per i diritti dei neri Naacp guadagna un milione di nuovi follower. Attivisti neri diventano punti di riferimento mondiali per il tema delle discriminazioni razziali. Pagine sorte dal nulla diventano hub per condividere informazioni e dati. «C’è stato un momento in cui le persone si sentivano in colpa se non postavano qualcosa che avesse a che fare con quello che stava succedendo» ha spiegato Thaddeus Coates, artista e divulgatore nero. «La gente non postava più foto di cibo, perché faceva strano vedere la foto di un panino e subito dopo quella di una persona che era stata uccisa.»

La paura di scontentare il pubblico

La tentazione umanissima di scrivere esclusivamente per compiacere il pubblico, per conquistare il suo like, la sua condivisione.

Faccio questo mestiere da più di dieci anni, nel corso dei quali ho sentito e vissuto ogni tanto pressioni di ogni tipo. Nuovi mezzi di comunicazione se da un lato promettono di “liberare” i giornalisti da pressioni di terzi, dall’altra rischiano di limitarli tramite una forma di condizionamento più subdola, e quindi pericolosissima: il pubblico.

Pensateci: non è mai capitato anche a voi di pubblicare contenuti sul vostro profilo personale all’esclusivo scopo di ottenere like, nonostante in cuor vostro foste dubbiosi sulla reale validità e onestà intellettuale di quel contenuto? Magari era una polemica che non avevate approfondito, magari un personaggio finito in una shitstorm. Volevate solo aggiungere la vostra battutina, dare il vostro piccolo contributo: per sentirvi parte di un gruppo, ricevere approvazione, instaurare nuove relazioni o consolidarne di vecchie.

Moltiplicate questi istinti umanissimi per quattrocento, uniteli in uno stesso posto (una redazione) e avrete uno dei più drammatici atti d’accusa al rapporto tra giornalismo e social del nuovo millennio:

la lettera di dimissioni di Bari Weiss.

Scoppia il #MeToo. Per mesi, i media di tutto il mondo incassano clic raccogliendo e riprendendo le dichiarazioni di persone che lanciano accuse pesantissime nei confronti di uomini famosi.

Alcuni si fanno prendere la mano e abbandonano basilari principi giornalistici:

  • la verifica dei racconti
  • la consultazione di altre fonti
  • l’offerta di replica alla controparte
  • la sacrosanta presunzione di innocenza.

Perché i racconti delle denunce “tirano”, più di ogni altra cosa.

Il #MeToo è una storia che ce le ha tutte: Sesso, Soldi, Fama, Droga.

Molti giornalisti finiscono per trasformarsi in attivisti o per ingraziarsi gli attivisti, più che raccontare i fatti.

Bari Weiss è una giornalista americana. È tagliente, lucida, non convenzionale. Nel 2017 viene chiamata dal «New York Times». Il giornale più prestigioso del mondo, dopo la vittoria di Donald Trump, si è reso conto di avere capito ben poco degli americani meno progressisti e vuole nuove firme che li raccontino: Bari Weiss, che si definisce di sinistra moderata seppure venga considerata conservatrice, è la migliore. Va tutto liscio, per un po’. Ma poi arriva la fine del 2017.

Dopo il 2017 i giornali e i giornalisti che raccontano temi sociali e divisivi, secondo l’accusa di Bari Weiss, iniziano sempre più ad assumere un conformismo piacionesco nei confronti dei social, Twitter primo tra tutti. Non scriviamo più per stimolare il senso critico del lettore, ma per avere il suo retweet, è il senso.

La vicenda che la colpisce di più sono le dimissioni “spintanee” di James Bennet. Responsabile degli editoriali del «New York Times», era stato sommerso dalle critiche di colleghi e lettori dopo che aveva fatto pubblicare l’editoriale di un senatore repubblicano, in cui l’autore chiedeva di schierare l’esercito contro i manifestanti per le strade degli Stati Uniti. Come se la pagina dedicata agli editoriali di persone esterne dovesse ospitare soltanto opinioni che ci trovano già d’accordo.

Bari Weiss si dimette e pubblica una lettera durissima sul suo sito.

«Twitter non è nella gerenza del “New York Times”. Ma è diventato il suo vero direttore» scrive. «Le storie sono scelte e raccontate per compiacere lo zoccolo duro del pubblico anziché attrarre i lettori più curiosi a leggere notizie di tutto il mondo e poi trarre le proprie conclusioni.» «Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace, quando possiamo assicurarci il risultato (e i clic) pubblicando il nostro quattromillesimo articolo in cui sosteniamo che Donald Trump è un pericolo per il paese e il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma [...] Gli editoriali che appena due anni fa sarebbero stati facilmente pubblicati oggi metterebbero in difficoltà il caporedattore o il giornalista, forse fino a farli licenziare. Se si ritiene che un pezzo possa avere un contraccolpo interno o sui social media non viene proprio pubblicato».

Tra gli altri casi, quello del sondaggista politico David Shor, che perde il lavoro dopo aver twittato dati sul legame tra gli episodi di vandalismo seguiti all’uccisione di George Floyd e l’aumento del consenso dell’allora presidente Trump.

Il rischio del conformismo social è doppio.

Da una parte rischiamo di avere redazioni e personalità (giornalisti, intellettuali, autori, creator) sempre più piacioni, smaniosi di assecondare e confermare visioni del mondo di persone sempre più suscettibili, anziché di raccontare i fatti e offrire analisi che mettano in difficoltà e sovvertano il nostro modo di pensare.

Dall’altra, di avere appaltata una contronarrazione esclusivamente a figure più o meno “punk”, più o meno antisistema, e in rotta con il sistema da cui denunciano di essere stati censurati. In rete c’è chi parla addirittura di intellectual dark web: è quella parte di rete (così battezzata in un’inchiesta del «New York Times») che ospita contenuti audio/video di pensatori considerati “non allineati al pensiero dominante”.

Si tratta di una ventina di giornalisti, psicologi, filosofi che grazie a piattaforme come YouTube e Spotify si sono ritrovati a essere gli intellettuali più influenti al mondo, punto di riferimento educativo per milioni di ragazzi e ragazze occidentali. Tra i più famosi:

  • lo psicologo canadese Jordan Peterson
  • il polemista conservatore Ben Shapiro
  • le femministe Camille Paglia e Christina Hoff Sommers
  • il commentatore politico Dave Rubin
  • la scrittrice e attivista Ayaan Hirsi Ali.

Tutti hanno pensieri considerati non in linea, fieri sostenitori della libertà intellettuale personale, e perciò feroci avversari di cose che secondo loro la stanno minacciando.

In mezzo, tra i conformisti e i pensatori “punk”, tra due estremi che non fanno una moderazione, ci sono molti altri: quelli che rischiano di arrendersi all’autocensura.

C’è come questa paura nell’epoca del giornalismo social, che vi confesso ho avuto più volte anch’io: scrivere qualcosa di “spiacevole”. Letteralmente: scrivere qualcosa che potrebbe non piacere ai lettori. Per paura di rovinare loro una storia perfetta, di sfumare i ruoli di eroi e antagonisti, di stoppare l’indignazione e conseguentemente perdere like, smarrire follower o, peggio, finire al centro di una shitstorm in rete. Ecco, penso sia questa la minaccia più grande alla vivacità intellettuale giornalistica: l’insicurezza. L’autocensura. Il narcisismo.

Per la prima volta nella storia, siamo preoccupati non solo e non tanto dalla censura che potrebbe arrivare dall’alto (da un politico, un finanziere, un inserzionista) ma dalla censura dal basso.

Siamo preoccupati non tanto di prendere una fake news, ma di finire col nostro nome e cognome in top hashtag di Twitter perché oggetto di una sollevazione digitale. O di finire nelle storie di qualche influencer particolarmente seguito che si è sentito offeso dalle nostre parole. Per aver detto qualcosa non approvato dalla maggioranza social. La tentazione per evitarlo è di ricorrere allo strumento di difesa più comodo e conveniente: la rinuncia alla complessità.

Le fuck news

La rinuncia alla complessità avviene quasi sempre per paura, conformismo o convenienza: paura di finire linciati; conformismo da pigrizia intellettuale; convenienza di mantenere o guadagnare lettori. Tutte cose alla base di quelle che, come ho già detto, io chiamo le “fuck news”: quelle notizie apparentemente perfette che ci fanno imprecare e fanno salire l’indignazione di utenti. Quelle notizie che fanno sobbalzare e che vengono ricondivise e amplificate senza alcun approfondimento e verifica.

Quando vi imbattete in una storia che vi fa indignare, il vostro cervello produce cortisolo – l’ormone dello stress – il vostro battito aumenta, sentite salire la rabbia, volete fare qualcosa. Subito. E possibilmente senza troppo sforzo. Ecco che cliccate su “Ricondividi”.

Ingrediente più efficace: l’indignazione.

Qualche anno fa i ricercatori dell’università Beihang di Pechino analizzarono milioni di contenuti postati su Weibo, il Twitter cinese. Etichettarono ogni contenuto in base all’emozione che suscitava nel lettore, quindi li ordinarono in una classifica. Ne ricavarono due osservazioni. Prima, i contenuti che provocano felicità circolano più veloci di quelli che provocano tristezza.

La tristezza è un’emozione che tende a disattivarci, a farci chiudere le spalle e ritirarci nella nostra solitudine.

più veloce a contagiare della felicità, c’è solo la rabbia. Salvo rarissimi casi (come una notizia che racconta una scoperta eccezionale, tipo quella della cura del cancro) non c’è niente che sui social viaggi più veloce della rabbia. E i temi a cui reagiamo con più rabbia, conclusero i ricercatori cinesi, sono quelli politici e sociali: questioni Lgbtq+, diritti delle minoranze, antirazzismo.

Quando si sviluppa un contenuto capace di scatenare rabbia, il meccanismo che avviene nelle redazioni è semplice (e lo so non perché sia meglio dei miei colleghi, ma semplicemente perché vi ho partecipato anch’io per anni).

Amy Cooper

Spieghiamolo prendendo come esempio il video di Amy Cooper, che avrete visto anche voi. Il 25 maggio 2020, stesso giorno dell’omicidio di George Floyd, diventa virale il filmato di una donna bianca col cane a Central Park che, ripresa da un uomo nero, chiama la polizia e inizia a urlare al telefono: «C’è un afroamericano che mi sta minacciando». La narrazione è: donna che ha lasciato il cane senza guinzaglio, quando viene redarguita da un uomo nero, chiama la polizia e si inventa un reato per denunciarlo. Perfetta. Il video esplode sui social, provocando comprensibile indignazione. A questo punto, nelle redazioni online scatta l’allarme: «C’è questa vicenda...» segnala agli altri il giornalista solitamente più smanettone sui social, «riprendiamola». Il giornalista, solitamente quello che l’ha segnalata, fa un primo pezzo in cui semplicemente si riprende “la notizia”. Spesso non fa controlli, non fa verifiche, non controlla ulteriori fonti, non alza il telefono per porre domande. Tutto quello che deve fare è pubblicare il video, scrivere un sunto (del video o dell’accusa di qualcuno verso qualcun altro) e strillare un buon titolo. Quindi, postare immediatamente quel contenuto sui social, affinché faccia più engagement (ovvero produca commenti, like e condivisioni). I tempi sono fondamentali: prima il contenuto verrà postato sui social, più sarà in grado di raggiungere persone che non si sono ancora imbattute nella notizia, e più sarà idoneo a scatenare nuove rabbie (e quindi condivisioni). Il primo pezzo è il test. Un primo contenuto da pubblicare entro i primi dieci minuti dalla segnalazione (massimo venti) che ha l’obiettivo di percepire l’umore della rete. Dopo pochi secondi, redazioni e creator sanno se voi vi state appassionando alla storia: dai vostri like, dai vostri commenti, dai vostri clic sul lancio. Se non vi indigna, la storia finisce lì. Tutto sommato è stato un investimento ragionevole: dieci minuti del tempo di un autore per un test concreto.

Se la storia vi indigna, allora “si sviluppa”. Il creator o la redazione si prefigge come scopo quello di produrre e postare quanti più contenuti nel giro di ventiquattro ore (a volte anche dodici). Basta un po’ di esperienza e di pensiero laterale. E così, possiamo fare come prima cosa un ritratto di lei (“Chi è Amy, la donna che si è inventata l’aggressione”). Poi possiamo continuare con un ritratto di lui (“Chi è Chris, l’uomo che riprendeva”). Esauriti i ritratti, se la storia ancora tira, possiamo allargare il cerchio. Riprendiamo prima le dichiarazioni di solidarietà delle star al protagonista, poi i tweet del “web indignato”. Se siamo ancora più ambiziosi, possiamo aggiungere un pezzo più profondo: un excursus sul rapporto tra donne ricche bianche e razzismo. Infine, magari la mattina dopo, possiamo condire il tutto con il commento di una firma prestigiosa che replica l’indignazione della rete. Alla fine, il caporedattore o il creator chiuderà le sue ventiquattro ore portandosi a casa vagonate di follower o di accessi, da capitalizzare nei confronti dei brand al momento di un contratto o nei confronti del direttore al momento della promozione. La mattina dopo, tutti penseranno già alla nuova polemica.

Ho esagerato tutto volutamente (le redazioni sono ancora uno dei luoghi più intellettualmente vivaci del mondo), solo per far passare il concetto: troppo spesso, nel racconto di vicende come queste, nella rincorsa all’indignazione, noi giornalisti, autori o semplici commentatori, rischiamo di perdere il gusto della complessità. Complessità che deriva solo e soltanto sempre da tre fattori: fonti alternative, senso critico e contesto.

Sulle fonti alternative, vale sempre il detto che la grande giornalista Fiorenza Sarzanini usa per parlare delle fonti giudiziarie: «Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro». Perciò, cari utenti, ogni volta che leggete una notizia che vi fa indignare, prima di ricondividerla cercatela su altre fonti.

Sul senso critico, vale il detto: «Quando ti sembra troppo bella per essere vera, non è vera». O meglio, è sempre più complicata di così. Sul caso di Amy Cooper, per esempio, ci sono alcuni dettagli che nessun giornalista inizialmente si è mai preoccupato di raccogliere prima di sparare la notizia acriticamente.

  • Primo fatto: l’uomo che filmava (il nero) si chiama Chris Cooper. È un osservatore di uccelli. E c’è questa cosa a Central Park. Gli osservatori di uccelli odiano i proprietari che portano i cani a fare i bisogni, perché spaventano i volatili. Chris Cooper è un tipino piuttosto polemico. È un fatto che se ne va al parco portandosi con sé i croccantini. Quando vede cani non al guinzaglio, li avvicina con i croccantini e inizia a minacciare i proprietari. Ha già due precedenti scontri di questo tipo con altri proprietari.
  • Secondo fatto: quello che vediamo in video non è tutto quello che è successo (non lo è mai). C’è un dopo e soprattutto c’è un prima. Prima che l’uomo iniziasse a registrare col suo telefono, aveva effettivamente minacciato la donna: «Se vuoi chiamare la polizia fallo, ma sappi che allora anch’io farò quel che voglio, e non ti piacerà». Queste parole sono state ammesse davanti alla polizia dallo stesso uomo. Non so voi, ma se fossi stato una donna in mezzo al parco, davanti a un uomo che mi dice una frase del genere a pochi metri da me, mi sarei sentito vagamente in pericolo e avrei perso lucidità.
  • Terzo fatto: quando Amy Cooper chiama la polizia, presumibilmente in uno stato di ansia e paura, non c’è campo. Il centralinista del 911, come confermato dalla registrazione, continua a dire alla donna che non sente niente. Anche per questo Amy Cooper ripete continuamente nel video quel messaggio («C’è un uomo afroamericano che mi sta minacciando»), in un crescendo disturbante eppure ora più comprensibile.

Ora. Alla luce di questi fatti il comportamento della donna è totalmente condivisibile? Non necessariamente. Non credo sia neppure compito o aspirazione dei giornalisti pronunciare la sentenza. Ma è loro dovere raccogliere e presentare quanti più fatti possibile, perché diano il contesto e gli strumenti ai lettori (e ai follower) per farsi la loro opinione. Nel caso di Amy Cooper, e in tanti, tantissimi altri casi, quel lavoro non è stato fatto. Perché farlo significava essere a rischio linciaggio della folla dei social, essere tacciati di razzismo o di altro. Perché nell’informazione social non contempliamo dubbi, e chiunque ci porti fatti che ne fanno crescere in noi di nuovi ci sta in effetti distraendo. Forse ci conviene etichettarlo come parte dei cattivi e non ascoltarlo più.

Il crollo del contesto

Nel frattempo Amy Cooper ha perso il lavoro, ha cambiato città ed è ancora oggetto di minacce e insulti. Lo stesso uomo che l’ha filmata, ha detto saggiamente: «Non sono sicuro che quel singolo minuto possa definirla completamente come persona». È come se avesse riassunto un’altra dura legge dei social: in un minuto si fa la vita di una persona. Perché crolla ogni contesto. Perché formiamo le nostre opinioni (e indignazioni) basandoci esclusivamente su “pezzi” di qualcosa: quasi sempre uno screenshot o un estratto video di pochi secondi. Tendiamo a credere che quella piccola parte sia il tutto, e sulla base di quella credenza sviluppiamo una certezza: a quel punto non abbiamo bisogno del contesto, né del prima né del dopo, né di spiegazioni né di versioni.

Greta Beccaglia

Sui social non abbiamo dubbi. A inizio dicembre 2021 diventa virale in rete il video di una giornalista di Toscana Tv, Greta Beccaglia, che, mentre raccoglie le opinioni dei tifosi all’uscita dallo stadio di Empoli, viene molestata in diretta da un uomo con uno schiaffo sul sedere. Il video dura meno di un minuto e provoca indignazione anche per le parole che il giornalista dallo studio dice in quei secondi: «Non te la prendere, Greta». Personalmente, appena visto l’estratto, l’adrenalina mi era entrata in circolo, il battito era aumentato, dovevo fare qualcosa: scrivere contro quell’uomo. Subito. Prima che lo facessi, un’amica mi ha girato il video integrale. È allora che ho iniziato ad avere un dubbio, a contemplare quantomeno i grigi in una vicenda che fino ad allora nella mia testa aveva solo bianchi e neri, tra cui il giornalista cattivo, maschilista e indegno di essere uomo. Ho cercato altre fonti, altri “pezzi” di informazioni per ricostruire il contesto. Ho visto per la prima volta il video integrale dell’accaduto, in cui il presentatore interrompe la diretta indignato «perché determinati atteggiamenti meritano ogni tanto qualche sano schiaffone». Ho letto la sua spiegazione: «Non te la prendere», non era inteso come “Non farla lunga, ti hanno solo toccato il c..o”. Era: “Non prendertela, quelli lì sono dei violenti, cerca di non reagire perché se no rischi la tua incolumità lì, ora, accerchiata. Poi li denunciamo”. Ho letto poi le interviste della stessa giornalista, che spiega come dopo sia stato lo stesso collega a rincuorarla e soprattutto a invitarla a raccontare l’accaduto e denunciare tutto. La mia indignazione si era affievolita.

Letizia Battaglia

Altro dubbio. A novembre 2020 la fabbrica di auto Lamborghini pubblica sui suoi social alcuni scatti commissionati a Letizia Battaglia per un progetto piuttosto figo. Si vedono paesaggi palermitani, Lamborghini e bambine. Apriti cielo. In rete le immagini sono «sessiste, maschiliste, problematiche per il retaggio culturale che queste evocano» scrivono dai collettivi femministi. I giornali riprendono. Nel giro di un pomeriggio, sindaco di Palermo e azienda corrono ai ripari e ritirano immediatamente gli scatti da tutti i social. Contesto: la ricerca fotografica di Letizia Battaglia da decenni ha al suo centro le bambine. Eliminare le bambine dalle sue foto è un po’ come togliere dal museo l’Autoritratto con orecchio bendato di van Gogh per incitamento all’automutilazione.

Barbara Palombelli

Ancora, a settembre 2021 diventa virale il video di un minuto in cui la conduttrice di Forum, Barbara Palombelli, si interroga sulla violenza di genere. «A volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa e obnubilati oppure c’è stato un comportamento aggressivo ed esasperante anche dall’altra parte?» Shitstorm di giorni. Editoriali, commenti, insulti, indignazione. Tutto basato su quell’unica fonte: un minuto di video diventato virale sui social. Contesto: la Palombelli stava introducendo il caso che si raccontava in quella puntata. Un caso giudiziario in cui un marito era stato prosciolto dall’accusa di violenza proprio perché si era scoperto che era lui a essere stato picchiato più volte dalla moglie, con schiaffi e spintoni giù dalle scale. Peccato che nell’epoca dei meme, dei ritagli, della pigrizia, della rincorsa all’indignazione e della conseguente morte del contesto, un singolo minuto valga l’intera vita di una persona.

  • Il giornalista in studio è stato sospeso
  • le foto di Letizia Battaglia ritirate
  • la Palombelli linciata.

Non voglio entrare nel merito di ogni vicenda ma nel (mio) metodo: il mio proposito per il futuro da utente e giornalista è di lasciare sempre meno che la mia indignazione mi precluda la ricerca di altri “pezzi” di fatti. Di far sì che quell’estratto da cui parte la mia indignazione rappresenti un elemento del racconto, e mai il tutto. E di non dimenticarmi di coltivare sempre più i dubbi. Soprattutto, come nei casi come quello di Justine Sacco, quando non ce li ho.

Dal capro espiatorio ai linciaggi social

La storia di una battuta venuta male

Justine Sacco

È il 20 dicembre 2013. Justine Sacco deve prendere un volo di 11 ore e per ingannare il tempo, prova a fare la simpatica coi suoi 170 follower su Twitter. Scrive 3 battute, poco riuscite e l'ultima, prima di imbarcarsi sul volo di undici ore: «Vado in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo. Sono bianca!».

Spegne il cellulare e sale sull’aereo. Quando l’aereo atterra e riaccende il cellulare le arrivano messaggi da parte dei suoi amici del tipo: «Mi dispiace vedere tutto quello che sta succedendo», «Chiamami immediatamente» e «Sei il trend numero uno al mondo su Twitter».

Quando apre Twitter scopre di essere stata sommersa di insulti, che è stato creato un hashtag «L’Aids può colpire chiunque». L’hashtag è #HasJustineLandedYet, “Justine è già atterrata?”.

Mentre lei dormiva tranquilla un giornalista aveva ritwittato ai suoi 15.000 contatti. Con gran gusto: «Il fatto che lei fosse una dirigente che lavorava nelle pubbliche relazioni ha reso il tutto ancora più delizioso» ha raccontato il giornalista. «È una soddisfazione poter dire “Ok, facciamo che stavolta un tweet razzista da parte di un pezzo grosso della Iac non passi inosservato”. Lo rifarei senz’altro.»

La donna, nel giro di poche ore, è diventata il bersaglio perfetto: ricca-bianca-manager-newyorchese-che-attacca-un-paese-povero. Aggredirla sui social e chiederne la testa, nella mente dei linciatori (coloro che adorano linciare le persone sui social) equivale a riscattare un paese dal razzismo strutturale dei bianchi.

Ci sono tre dinamiche tipiche dei linciaggi social, a cui probabilmente avete assistito o partecipato.

  • i colpi si fanno più forti, numerosi e intensi man mano che il linciato si accascia a terra.[...] Circa centomila tweet e oltre 1,2 milioni di ricerche Google “Justine Sacco” nei dieci giorni successivi.
  • più il linciato è a terra, più l’obiettivo del linciaggio si allarga[...] Non ci basta umiliarlo, vogliamo togliergli tutto. Anche il diritto al lavoro
  • mai avere dubbi. Sui social troppo spesso non ci concediamo interpretazioni altre, opportunità di replica, analisi del contesto. Linciamo, e se ci saremo sbagliati sul conto del linciato, pazienza. Nessuno andrà ad approfondire quello che veramente è successo, domani saremo tutti impegnati a linciare qualcun altro. Nessuno, tra i milioni di persone che aspettavano l’atterraggio di Justine, aveva alcuna prova testuale – dichiarazione, video, audio – che stabilisse con certezza il suo razzismo. Nessuno aveva in alcun modo approfondito la sua vita. Nessuno ha mai sospettato che la sua potesse essere una battuta venuta male. Nulla importava, in quel momento. La folla aveva deciso, e l’aveva fatto esclusivamente sulla base di quel singolo tweet.

L’unico a cui venne un dubbio e decise di approfondire fu Jon Ronson. Formidabile giornalista inglese, è forse l’autorità mondiale sui “linciati”. Uno che ne ha intervistati a decine, e ha scritto un libro che a mio avviso dovrebbe essere scelto come testo nelle scuole elementari: I giustizieri della rete, in cui racconta il suo incontro esclusivo con Justine. La acchiappò mentre stava ritirando gli scatoloni dal luogo di lavoro (sì, l’hanno fatta fuori senza pietà). Lei gli fece notare l’ironia e il paradosso della sua battuta (Non posso prendere l’Aids perché sono bianca): «Solo un folle potrebbe pensare che i bianchi non prendano l’Aids». A guardarlo oggi, scrive Ronson, è ovvio che il suo tweet, per quanto di cattivo gusto, non fosse razzista, ma più un commento sulla tendenza ingenua dei bianchi a immaginarsi immuni a malattie considerate lontane come l’Aids. «Era una battuta a proposito di ciò che sta accadendo nel Sudafrica post-apartheid, una situazione a cui non prestiamo attenzione. Era un commento totalmente esagerato sulla sproporzione nelle statistiche sull’Aids.» Le è andata male.

Origine del capro espiatorio

Nell’epoca antica, tra gli Ebrei, quando arrivava il giorno dell’espiazione, il sacerdote di una comunità prendeva un capro, lo caricava simbolicamente di tutti i peccati e le malefatte della stessa comunità e lo cacciava nel deserto: il capro espiatorio. Più tardi le città greche utilizzarono un metodo simile: quello del pharmakos, “il maledetto”. Prendevano o compravano un uomo considerato particolarmente brutto o deforme e lo nutrivano a spese della città. Un giorno stabilito, lo scacciavano a pietrate e frustate. Come ha raccontato Isabel Wilkerson in Caste. The origins of our discontents, era un modo per scaricare sull’“altro” tutti i peccati della città e per purificare tutti coloro che vi abitavano. Un emarginato, un deforme, un diverso era perfetta incarnazione del male, comoda rappresentazione di ogni sventura, visibile forma di ogni peccato e colpa. La sua espulsione, condotta nel più palese e rumoroso dei modi, era lo strumento che la comunità aveva per ritrovare la propria sicurezza, liberarsi dei propri peccati e tornare a immaginarsi libera da ogni imperfezione.

Nel corso della storia umana, altre società o governi hanno avuto una qualche forma di capro espiatorio:

  • l’Inquisizione spagnola del Medioevo
  • la caccia alle streghe tra il Quattrocento e l’Ottocento
  • le persecuzioni giacobine della Rivoluzione francese
  • le guardie rosse della Rivoluzione culturale cinese
  • gli informatori della polizia segreta della Germania Est
  • le persecuzioni contro i presunti comunisti nell’America maccartista degli anni Cinquanta.

In tutti i casi, la violenza contro i singoli o le minoranze era usata per affermare la purezza di un’ideologia o l’istituzione di una maggioranza.

Dall’Appointment internet al Performance internet

Poi è arrivato internet.

Due i prerequisiti che hanno catalizzato il cambiamento, attorno all’inizio degli anni Dieci. Primo, l’avvento degli smartphone: ogni barriera fisica è scomparsa, grazie alla navigazione da mobile la nostra autonarrazione è diventata tecnicamente possibile a ciclo continuo. Secondo, l’esplosione dei social. Il potere è finito in mano a un gruppo di pochissime piattaforme; i blog e i forum sono stati abbandonati; le community hanno lasciato il passo ai singoli creator. Dall’Appointment internet siamo passati al “Performance internet” (neologismo mio, fa schifo, lo so): singoli con una massa di migliaia di follower che postano la loro performance (sotto forma di post, storia o altro) a un orario indistinto per un pubblico indistinto che la vedrà in momenti indistinti. Tutto diventa parte di un feed dominato da un algoritmo, che a sua volta sarà visualizzato in maniera unica da ogni singolo utente. È difficilissimo trovare un’intera esperienza condivisa tra più persone, visto che ognuno ha il suo angolo e punto di vista. Nel Performance internet la moneta corrente – quella capace di dare visibilità, incentivi sociali e quindi incentivi economici – è la performance stessa. Devi agire, devi comunicare e devi fare bella figura.

E dall’alba dei tempi credo abbiamo due modi di fare bella figura: uno per esposizione e uno per contrapposizione. Il primo consiste nel mostrare le nostre qualità e nascondere i nostri difetti. Il secondo, più estremo, nel condannare i presunti difetti degli altri. Condannare qualcuno, metterlo alla gogna con ironia, può farci sentire meglio con noi stessi. Più intelligenti, più buoni, ironici, cosmopoliti, sagaci, taglienti. Ci fa sentire persone migliori moralmente, e quindi degne di ricompensa social: che sia in ordine crescente un like, un apprezzamento, una ricondivisione, una richiesta d’amicizia o una collaborazione con un brand. Eccola, la scala della ricompensa social.

Se la valuta dell’autonarrazione social per esposizione è la performance (di cui parleremo nei capitoli dedicati ai creator e ai brand), quella dell’autonarrazione per contrapposizione è la rabbia, l’indignazione. Quella che Amy Fleming, giornalista della Bbc ha definito «l’emozione cruciale del XXI secolo». Se ci pensate, fino a poco tempo fa mostrare la propria rabbia era considerato segno di debolezza psicologica e inaffidabilità sociale. Quando i contatti erano prevalentemente fisici, la persona che in pubblico mostrava continuamente la sua rabbia – sentimento premonitore di un conflitto che sarebbe potuto sfociare in un attacco fisico – era vista con diffidenza, giudicata come non pienamente matura e incapace di tenere sotto controllo le sue emozioni. «Un comportamento rabbioso ha notevoli costi economici» ha spiegato Nadja Heym, psicologa della Nottingham Trent University specializzata nei comportamenti antisociali. «Ha un impatto sulle relazioni, sulla performance al lavoro, sul benessere mentale.»

Da quando eravamo nelle caverne, ogni volta che ci sentiamo minacciati, provocati o in pericolo di vita, siamo programmati per avere la classica risposta fight or flight. [...]Con l’uso dei social e degli smartphone, il ciclo indignazione-esplosione di rabbia-rilassamento-piacere diventa continuo. Ci ritroviamo in uno stato di allerta perenne, siamo circondati dalla rabbia e allentiamo loro performance (sotto forma di post, storia o altro) a un orario indistinto per un pubblico indistinto che la vedrà in momenti indistinti.

E a due secoli dalla sua abolizione, ha fatto ritornare la gogna pubblica. È un termine che ho sentito usare spesso in questi due anni, ma di cui non avevo mai compreso il significato storico. All’inizio era un collare in ferro attaccato a una colonna a cui era legato il condannato. Più tardi venne sostituito con la classica tavola di legno con tre buchi in mezzo, in cui il malcapitato doveva infilare la testa e le mani (quando i buchi comprendevano anche i piedi, si parlava di “berlina”). Durante il Medioevo la pena della gogna era destinata ai condannati per reati minori: bestemmie, prostituzione, piccoli furti. Il malcapitato veniva immobilizzato alla tavola di legno, spesso con appeso un cartello in cui era scritto il reato commesso. Veniva trascinato negli incroci più frequentati della città o nei luoghi dove si teneva il mercato, per essere esposto a quanti più occhi possibili. Quindi veniva lasciato lì per qualche ora o per un giorno: ventiquattro ore, incredibile come la storia ritorni con tutti i suoi dettagli. La folla poteva schernirlo a suo piacimento: c’era chi gli ricopriva il volto di letame, chi gli lanciava sassi o verdure, chi gli faceva il solletico, chi lo ustionava.

Tra i personaggi illustri del passato messi alla gogna, ci fu lo scrittore britannico Daniel Defoe, quello di Robinson Crusoe. Nel 1702 scrisse un pamphlet ironico e ferocissimo contro il re e la Chiesa (La via più breve con i dissenzienti). Ma come Justine Sacco non si vide riconosciuta l’ironia. Venne condannato al pagamento di duecento marchi, rinchiuso in prigione e costretto alla gogna in tre giorni e in tre luoghi diversi di Londra. Il suo libro venne dato alle fiamme e il tipografo imprigionato. Mentre aspettava in carcere, scrisse il suo Inno alla gogna, in cui sbeffeggiava la barbarie del ludibrio della folla.

Nel testo Dafoe saluta la gogna come antica macchina di stato, inventata per punire addirittura i pensieri («la fantasia») degli uomini. Dice che è stata ideata per indicare presunte offese, ma al massimo può far divertire alcuni uomini: le «menti sagge e ferme» non si fanno intimorire. «Spesso la virtù» è punita dal vizio, e il «furor della strada» (oggi diremmo dei social) non distingue niente, si diverte a litigare e a parlar male della gente. La plebaglia non è guidata da nessuno: getta soltanto «fango», senza legge, né buon senso.

Trovo incredibile come a più di trecento anni di distanza il testo sia così attuale, sia nei meccanismi descritti che nelle parole usate. Su una cosa soltanto Defoe si sbagliava: l’assenza di conseguenze della gogna negli uomini più “saggi”. No, la gogna fu abolita pressoché ovunque durante l’Ottocento non solo perché era inutile, ma perché era considerata dai movimenti più liberali troppo brutale per le sue conseguenze sulla vita futura del cittadino. Già nel 1787 Benjamin Rush, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, scrisse un saggio in cui ne chiedeva la soppressione, perché considerava l’ignominia una punizione peggiore della morte. «Se prima era forse esistita nel cuore della persona condannata una scintilla di rispetto di sé, questa esposizione alla pubblica umiliazione la spegnerà del tutto» scriveva il «New York Times» nel 1867. L’umiliazione della gogna spegne nella vittima il desiderio di redimersi e preclude la speranza nella società che qualcuno possa mai tornare alla via dell’onorabilità. Avevamo già capito che uno dei maggiori passi verso la civiltà era quello di trasformare il nostro sistema della giustizia. E di passare il prima possibile da un processo privato con condanna pubblica a un processo pubblico con condanna privata. Più di trecento anni dopo, sui social, rischiamo di introdurre un nuovo sistema: nessun processo, né pubblico né privato. Solo la condanna. Pubblica.

Cosa ci insegna la legge

La responsabilità penale è ovviamente diversa da quella politica, civile, morale, ma credo che ogni giorno sui social, prima di partire col linciaggio, dovremmo ispirarci ai principi del diritto di procedura penale: regole uguali per tutti, diritto alla difesa e presunzione d’innocenza.

Partiamo dal primo principio. Come cittadini, sappiamo (o possiamo sapere) esattamente quali siano le regole che dobbiamo rispettare all’interno dello stato in cui ci muoviamo. Sono regole scritte nel codice penale. Dicono cosa non dobbiamo fare e qual è la pena che potremmo pagare se trasgrediamo. «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.» Punto. Non una parola di più. Le regole sono chiare, e si applicano a tutti, senza differenza di censo, reddito, età, genere. Nelle gogne mediatiche, purtroppo, c’è questa cosa: le regole non sono né chiare né uguali per tutti. Ti puoi ritrovare linciato, licenziato o deriso e non sapere mai qual è l’esatta regola morale, sociale o civile che hai infranto. Provate a fare questo esercizio. Pensate a una delle tante polemiche da ventiquattro ore che avete visto sui social e provate a riassumere con una precisione degna del codice penale la regola che la persona al centro della polemica avrebbe infranto. Attenzione, non basta dire «Ha offeso Tizio» (sentirsi offesi non significa automaticamente avere ragione), «Non doveva dire quelle parole» (chi lo stabilisce cosa possiamo dire e cosa no?) oppure «Ha sbagliato tono» (non siete voi a stabilire qual è il tono giusto). Usate una formula impersonale, universale, e soprattutto il più possibile priva di interpretazioni: che sia cioè il meno equivocabile e soggettiva possibile, che valga in ogni luogo e momento. Se non la trovate, fermatevi un attimo prima di partecipare al linciaggio.

Secondo principio che esiste in una democrazia ma non sempre nelle gogne social: il principio del diritto alla difesa, o al giusto processo. «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.» Fantastico, cristallino. Il processo deve essere un dibattito tra pari, in cui l’accusato può parlare ogni volta che vuole e dare la sua versione per sostenere la sua innocenza. Alla fine, ci sarà un giudice terzo che valuterà le fonti, la loro credibilità, ragionerà indipendentemente e deciderà in un senso o nell’altro. Il processo è pubblico proprio perché ogni persona deve poter entrare liberamente in aula e poter vigilare sulla sua correttezza. Sui social, la condizione di parità assoluta non esiste ormai da un pezzo: per un malinteso senso di giustizia o empatia, tendiamo a credere a prescindere alla presunta vittima o alla persona che si è sentita offesa, assumendo ogni sua parola come certa e sufficiente alla condanna dell’altro. La cui versione dei fatti troppo spesso è l’ultima cosa che vogliamo ascoltare. Perché forse, intimamente, sappiamo che quella sua versione andrà a complicare la vicenda, e la vita è già abbastanza complicata, per questa polemica ci bastano le nostre battute. Comprensibile. Ma vi posso assicurare che il lavoro di raccolta delle voci e fonti diverse (da utente può bastare una ricerca su Google, o il clic di un link, non ci vuole molto) è un esercizio che – se coltivato – vi renderà la vita ancora più divertente, e vi farà scoprire mondi finora inesplorati. Oltreché rendervi anche più positivi nei confronti della vita: gli stronzi messi alla gogna, una volta approfonditi i casi, non sono quasi mai così stronzi.

Da qui, l’ultimo principio, forse il prerequisito di tutti gli altri: la presunzione d’innocenza. Dice che insomma qualcuno è innocente fino a prova contraria. Concetto semplice eppure complicatissimo da fare proprio. So benissimo che la liceità o la moralità di un certo comportamento spesso non ha nulla a che vedere con la sua rilevanza penale. Ma il principio resta: è l’accusa (cioè i linciatori) che dovrà preoccuparsi di dimostrare la colpevolezza di un linciato, mica il contrario. Nelle gogne è come se il processo si invertisse, sempre per quel fatto di non avere alcun dubbio. Prima condanniamo il malcapitato. Poi, se quello dimostrerà che ci siamo sbagliati, magari equivocando le sue parole o i suoi comportamenti, tanto meglio. Noi ce ne saremo già dimenticati, presi da un’altra polemica.

Colpevoli fino a prova contraria

Come ho raccontato nel primo capitolo, uno dei momenti in cui il principio di innocenza sui social è stato più dimenticato, facendo da apripista verso altre gogne negli anni successivi, è stato proprio a cavallo tra il 2017 e il 2018. È come se in pieno #MeToo, molte testate e giornalisti avessero deciso di abbandonare o quantomeno smorzare tre di quelle basilari regole deontologiche della nostra professione: la verifica di un racconto, l’opportunità di replica della controparte, la presunzione di innocenza.

Ricordate Fausto Brizzi? Regista italiano tra i più famosi, divenne protagonista di una serie di servizi delle Iene. Ogni settimana, quasi tutte col volto coperto, alcune ragazze denunciavano di essere state molestate da un misterioso regista italiano, che dopo uno stillicidio di particolari (uno a settimana per risalire alla sua identità) venne svelato in Brizzi. L’uomo si difese subito: disse che mai e poi mai aveva avuto rapporti non consenzienti con quelle ragazze. Ma nessuno diede ascolto alle sue parole. Venne definito tra le altre cose «orco», «porco» e «Weinstein italiano»: le sue vicende private finirono su tutte le cronache. Dovette cedere le quote della società che aveva fondato dieci anni prima. E, cosa più terribile, fu ostracizzato dalla Warner Bros. La casa di produzione, per cui aveva un film in uscita a Natale, tolse la sua firma dalla pellicola e precisò che il suo nome non sarebbe stato «associato ad alcuna attività relativa alla promozione e distribuzione del film». Tutto questo, quando ancora nessun giudice aveva emesso una condanna e nemmeno ordinato l’inizio di un processo. E quando nessun elemento oggettivo di rapporto non consenziente era emerso. Ancora una volta, tutti quanti emettemmo la nostra sentenza e la forma della pena (linciaggio, esclusione e damnatio memoriae di Brizzi) sulla base di un “estratto”: le parole di quelle ragazze. Di loro, solo tre presentarono querela. La procura di Roma, come avviene in un paese civile, raccolse tutte le informazioni, fece gli accertamenti necessari con scrupolo. E infine, più di un anno dopo la crocifissione di Brizzi, chiese di archiviare tutto nel modo più netto possibile: «Il fatto non sussiste». Non c’era stata nessuna molestia. Solo incontri consensuali.

Il danno, al di là dei giudizi morali e professionali che ognuno può dare sul conto di Brizzi, fu doppio. Da una parte vennero distrutti la vita di un uomo e il principio della presunzione d’innocenza. Dall’altra, rischiò di essere in parte minata la credibilità di lotte e inchieste sacrosante sulle molestie e sui sistemi di potere in ambienti come quelli dello spettacolo.

Credo che due siano state le molle principali di quell’atteggiamento giornalistico. Primo, i clic. Vi assicuro: poche storie come le molestie-avvenute-a-Hollywood-con-protagoniste-celebrity garantivano accessi ai siti web. C’era un momento in cui ogni mattina un giornalista si alzava, andava in redazione, e chiedeva ironico: «Chi è il molestatore del giorno?». Il tweet di accusa della giornata non tardava ad arrivare. Il giornale riprendeva acriticamente la dichiarazione senza contestualizzare, verificare o approfondire. Lo stratagemma per evitare qualsiasi querela è sempre lo stesso: mettere tutto tra virgolette. Attribuire all’accusatore ogni affermazione critica nei confronti dell’accusato. Fateci caso, ogni volta che leggete notizie di questo tipo.

Il secondo motivo è stato invece più ideologico. È come se in quel contesto qualsiasi domanda per mettere in fila i fatti fosse percepita dalla rete e dal movimento #MeToo come criminalizzante nei confronti del denunciante. Ora, sia chiaro: nessun giornalista (direi nessuna persona) si deve permettere di mettere in dubbio la versione di un accusatore sulla base di barbarici e medievali pregiudizi. Al tempo stesso, ha il dovere (non il diritto, il dovere) di fare le domande, per quanto quelle domande possano risultare antipatiche. Perché il lavoro del giornalista (ma, suggerirei, pure quello di un utente che scorre il feed) è anche quello di raccogliere fonti, valutarle, verificarle e incrociarle tra loro nel modo più scrupoloso possibile. Immaginiamo che domani io scriva una mail a un quotidiano e racconti di essere stato violentato da Beyoncé. Non vi aspettate mica che il buon giornalista riporti acriticamente le mie parole e le spari in prima pagina con il titolo: «Io, molestato da Beyoncé». Vi aspettate che – sempre trattandomi con rispetto e senza alcun pregiudizio – mi faccia domande, ascolti la versione dei fatti di Beyoncé e di altre persone, cerchi altre fonti a supporto o meno delle mie parole. Il tutto prima di pubblicare una singola riga. Perché fare verifiche giornalistiche e garantire il diritto alla difesa di qualcuno non significa certo promuovere le molestie. Significa soltanto applicare basilari regole di democrazia e non sacrificarle mai sulla base di una rabbia. Eppure nei mesi del #MeToo per la prima volta in maniera quasi unanime abbiamo dato per scontata la colpevolezza di tutti gli accusati, definendoli «molestatori», «porci», «stupratori» e «orchi».Guia Soncini, autrice del libro L’era della suscettibilità sostiene che allora si è iniziata a formare quella che chiama «dittatura della fragilità»: «È stato allora che si è stabilito che, se reclamavi per te l’etichetta di vittima, se la reclamavi a dispetto delle evidenze [...] allora eri invincibile, allora tuo era il regno, tua la potenza, e la sospensione del senso del ridicolo. Se però a quel gioco di appropriazione della fragilità ti sottraevi, eri il nemico, eri quella cui si poteva dare la caccia impuniti, eri quella che non si assoggettava al ministero dell’amore (che già dal nome non lascia dubbi: loro sono i buoni, la stronza sei tu) e quindi veniva inseguita dalla psicopolizia. Partita dalle questioni sessuali, la dittatura della fragilità si è presto estesa ad altri ambiti (la razza, il genere, qualunque dettaglio identitario vi venga in mente)».

È stato allora che noi giornalisti abbiamo aperto la strada a una pratica che negli anni successivi si è estesa a tanti altri temi e accuse, facendo da propellente alle gogne social del giorno: tra le regole di buon senso giornalistico e i clic, troppe volte abbiamo scelto i secondi, calpestando principi per i quali a migliaia hanno dato la vita. Che in quanto principi o valgono per tutti o non sono più tali.

La “molestia” che non raccontai

Personalmente non mi reputo affatto migliore. Moltissime volte avrò infranto regole di buon senso per inseguire clic o pezzi “facili”. Una volta però l’ho imbroccata. Molti anni fa, finita un’intervista, un ragazzo di Roma che chiameremo Marco mi raccontò questa cosa qui: «Per lavoro sono stato due giorni interi con Kevin Spacey. Non mi era mai capitato di rifiutare così tante avance...». La battuta cadde lì, eravamo off the record. Quattro anni dopo, in pieno #MeToo, quando Spacey finì su tutte le prime pagine dei giornali del mondo per accuse (poi cadute) di molestie, richiamai quel ragazzo. Era disposto a parlare, con nome e cognome, confermando e dettagliando quel racconto. «Dopo due giorni insieme eravamo a pranzo con altre due persone» mi racconta. «Kevin Spacey era di fianco a me. A un certo punto mise la sua mano sulla mia gamba.» Pensai di avere uno scoop mondiale. «Parla un italiano: “Anch’io molestato da Kevin Spacey”.» Già pregustavo la mia gloria e la notizia ripresa in tutto il mondo. Finita l’eccitazione, assieme al mio capo ci facemmo qualche domanda. Ci sono i presupposti giuridici per una molestia, uno stupro, una violenza? Il ragazzo sarebbe pronto a denunciarlo? Come ha reagito Spacey dopo il suo rifiuto? «Bene, si fece una risata e ritirò la mano. Era un bambinone allegro» disse Marco dopo che lo richiamai. Alla fine decidemmo che no: quel racconto, per quanto gustoso, non rappresentava una notizia o una violenza e non andava pubblicato (mi permetto di riportarlo qui perché adesso non rivela nulla di nuovo rispetto alla sessualità di Spacey e non è affatto diffamante). Avvisai anche Marco, che capì e condivise la scelta (cosa non scontata, in quei giorni). Due giorni dopo la mia decisione, su tutti i giornali del mondo comparve l’“accusa” via Twitter di un attore messicano: «Anch’io molestato da Kevin Spacey. Ha tentato di palpeggiarmi». Nessun approfondimento, nessuna verifica, nessuna denuncia. Solo un post Facebook dell’attore. E, qualche minuto dopo, migliaia di titoli di giornali che lo riprendevano.

Ben due anni dopo il #MeToo, sono iniziati gli esami di coscienza del giornalismo. «The New York Times» ha messo in dubbio il lavoro di Ronan Farrow (giornalista figlio di Mia Farrow che ha costruito la prima inchiesta contro Harvey Weinstein), adombrando una sciatteria giornalistica nella verifica dei racconti. E, assieme ad altre testate come «The Washington Post», si è approcciato in modo diverso alle nuove denunce arrivate. Come quelle fatte da Tara Reade nei confronti dell’allora candidato alla presidenza Joe Biden.

Ex assistente di Biden negli anni Novanta, prima delle elezioni 2020 la Reade accusa il futuro presidente di stupro. Nella primavera del 1993, racconta, lui la spinse contro un muro, le mise la mano sotto la gonna e la penetrò con un dito. Il caso è delicatissimo. La Fox, tv di orientamento repubblicano, inizia a cavalcarlo. La Cnn decide di ignorarlo. «The New York Times» sceglie invece di approfondirlo con un’inchiesta a quattro mani. I due reporter fanno quel lavoro di ricerca di altre fonti e contestualizzazioni. Nell’ordine: intervistano Tara Reade più volte e in giorni diversi; cercano altre fonti e documenti che corroborino il suo racconto; parlano con più di venti persone che a quel tempo hanno lavorato per Biden e/o hanno conosciuto la Reade; consultano i legali della Reade; ricontattano sette donne che in passato hanno già criticato i comportamenti di Biden, definiti come «inappropriati». Le loro conclusioni vengono raccolte in un’inchiesta dettagliatissima. I reporter spiegano che la donna ha fatto denuncia alla polizia di Washington, ma solo «per proteggersi». Sottolineano che «la signora Reade non riesce a ricordare il giorno, l’orario o il posto esatto in cui sarebbe avvenuto lo stupro». Dicono che molte frasi della donna non sono supportate da documenti che pure dovrebbero esserci, ma proprio non si trovano. Intervistano altre persone che smentiscono alcuni racconti della donna. E alla fine dell’inchiesta scrivono: «Il “Times” non ha trovato alcun disegno di sexual misconduct», cattivo comportamento sessuale, «da parte di Mr. Biden». Dettaglio dedicato proprio a chiunque fosse pronto a urlare al maschilismo nascosto dei giornalisti del «New York Times»: a condurre l’inchiesta sono state due donne.

In Uscita di sicurezza di Ignazio Silone, un bambino racconta di quando vide un detenuto portato via dalle guardie. Era «un piccolo uomo cencioso e scalzo, ammanettato da due carabinieri...» che «procedeva a balzelloni nella strada».

«Guarda com’è buffo» dice il bambino al padre.

Più tardi, in privato, il padre lo fissò severamente e lo tirò per un orecchio. «Non l’avevo mai visto così malcontento di me.»

«Cosa ho fatto di male?» gli chiesi stropicciandomi l’orecchio indolorito.

«Non si deride un detenuto, mai.»

«Perché no?.»

«Perché non può difendersi. E poi perché forse è innocente. In ogni caso perché è un infelice.»

Eccolo qua, il principio da ricordare, anche quando il detenuto è soltanto il linciato del giorno sui social. Perché la violazione di questi tre principi rende sempre più terrificanti i social: da luogo in cui andavamo per raccontare i nostri segreti a luogo in cui siamo terrorizzati di raccontare qualsiasi cosa. Scegliendo il silenzio. Arrendendoci all’unica forma peggiore della censura stessa: l’autocensura.

Dalla damnatio memoriae alla cancel culture

Episodi di ingiustizie

  • Il compositore Daniel Elder è stato ostracizzato dalla sua etichetta di produzione per essersi lamentato su Instagram del rogo dello storico municipio di Nashville durante una manifestazione del Black Lives Matter.
  • Il biologo Richard Dawkins si è visto ritirare un prestigiosissimo premio ricevuto 25 anni prima per alcuni tweet mal interpretabili sulle persone transgender.
  • Blake Bailey si è visto rifiutare la pubblicazione già decisa della sua biografia autorizzata di Philip Roth e cestinare le altre sue opere dalla casa editrice per accuse, tra l'altro mai confermate, di molestie risalenti a trent’anni prima.
  • La giornalista afroamericana Alexi McCammond, già nominata direttrice di «Teen Vogue», è stata costretta a farsi da parte per una serie di tweet considerati xenofobi scritti dieci anni prima, quando non era ancora maggiorenne.
  • Emily Wilder, giovane reporter appena assunta all’Associated Press, è stata licenziata dopo che alcuni politici hanno ripubblicato su Facebook alcuni suoi post critici su Israele scritti durante gli anni universitari.

Definizione cancel culture

Gli americani. Coniano termini cool, battendo sempre tutti sul tempo, e facendoceli sembrare nostri.

L‘espressione che più ha attecchito all’inizio del decennio è forse “cancel culture”.

Il dizionario Merriam-Webster la definisce come «la rimozione del supporto a pubbliche figure in risposta a comportamenti o opinioni discutibili». Dictionary.com come «il ritiro del supporto a personaggi e aziende che hanno fatto o detto qualcosa di opinabile o offensivo».

Ligaya Mishan, in un saggio per il «New York Times», dice: nessuno sa cosa significhi veramente. «Il termine viene applicato in maniera parecchio confusa» a incidenti della più varia natura, che si verificano sia online che offline. Coloro che partecipano all’idea della cancel culture non si limitano alle scuse e alle ritrattazioni da parte del personaggio o dell’azienda che ha detto qualcosa di considerato sbagliato. Vogliono di più: il loro licenziamento, il loro fallimento, la rimozione dei loro prodotti. La loro cancellazione. Non è sempre chiaro quale sia l’obiettivo: se correggere uno specifico torto, riparare uno squilibrio di potere o ottenere vendetta.

Com'è nato il termine cancel culture

Secondo Vox il primo uso del termine è datato 1991 ed è intriso di machismo. Il verbo to cancel inizia a essere usato come l’azione di eliminare qualcuno dalla propria vita. Secondo alcuni linguisti specializzati nella cultura afroamericana come Anne Charity Hudley, «il concetto della cancellazione non è nuovo alla black culture». Per i più critici come Ligaya Mishan, la cancel culture è solo la versione più patinata e moderna del vecchio capro espiatorio caro agli ebrei o del pharmakos caro ai greci.

La cancel culture è vista come naturale evoluzione della "Call-out culture". Il termine risale ai primi anni 2010, si rifà agli spazi su Tumblr e indica l’abitudine sui social di esporre comportamenti considerati impropri, senza però chiedere la testa della persona che quei comportamenti aveva adottato.

Che cos’è cambiato rispetto al passato? In fondo come umani il nostro istinto è stato sempre quello di cancellare qualcuno che non sopportiamo: di desiderare ardentemente il licenziamento di quel collega insopportabile; di volere eliminato dalla competizione elettorale quel partito che consideriamo pericoloso. Abbiamo sempre esposto e diffamato chi non gradivamo, magari tramite sussurri e campagne diffamatorie di orecchio in orecchio. Ma per Anne Applebaum, che ha scritto il favoloso articolo “The new puritans”. E più che un mezzo per smascherare gli inganni, combattere gli abusi del potere e contrastare le ingiustizie tramite la potenza della rete, rischia di trasformarsi in una sequela di linciaggi di folla sui social media.

A farne le spese, più che i potenti sono le persone comuni.

Quelle che, a differenza di scrittori, comici e celeb, non hanno una fama, un’autonomia e una potenza tali da ricrearsi una carriera professionale. Persone che hanno perso tutto – lavoro, soldi, amici, colleghi – senza aver mai violato una legge, e talvolta neanche alcuna norma sul luogo di lavoro. Ma che magari, prosegue la Applebaum, «hanno violato (o sono stati accusati di aver violato) codici sociali che hanno a che fare con la razza, il sesso, il comportamento interpersonale, o addirittura il senso dell’umorismo, che magari non esistevano cinque o più anni fa. Alcuni hanno fatto errori di giudizio. Altri non hanno fatto proprio niente. Difficile a dirsi». Ma scava nelle storie di chiunque sia stato vittima di una moderna “giustizia della folla” e spesso troverai «incidenti di percorso, che sono interpretati, descritti o ricordati da differenti persone in differenti versioni».

Una generazione di “illiberali di sinistra”?

«The Economist», settimanale tra i più prestigiosi al mondo e Bibbia dei liberal, evita termini come "cancel culture" o "wokeness", conia una nuova espressione e dice che tutto sarebbe nato nei campus universitari americani, a partire dagli anni Dieci. Molti ragazzi, specie nei campus, iniziano a dividere il mondo in bianco e nero, tra gruppi di oppressi e oppressori. Iniziano a considerare le persone non più individui liberi, ma espressione dei gruppi di cui condividono caratteristiche identitarie . Sono gli stessi ragazzi dei campus che Barack Obama bacchettò in uno dei suoi discorsi più memorabili e coraggiosi.

« Persone che fanno cose buone hanno imperfezioni. Le persone contro cui combattete potrebbero amare i loro figli e condividere altre cose con voi. » Sia per un’influenza culturale, che si espande soprattutto tramite i social, sia perché gli stessi laureati iniziano a entrare uno alla volta nel mondo del lavoro, e portano il loro attivismo all’interno delle aziende e delle istituzioni. «Gli illiberali» scrive durissimo «The Economist» «pensano di essere gli eletti per liberare i gruppi oppressi. »

Gli illiberali anziché la libertà privilegiano l’uguaglianza, anziché le pari opportunità a inizio corsa i pari risultati a fine corsa, tenendo conto delle differenze di razza, sesso e così via. E pazienza se c’è da forzare il sistema o da restringere qualche libertà, specie di coloro che sono considerati come appartenenti ai gruppi degli oppressori.

Il manifesto contro la cancel culture

« In questa ideologia, l’educazione non consiste nell’insegnare alle persone il pensiero critico, ma nel rieducarle a cosa pensare. In questa ideologia, il bisogno di sentirsi al sicuro batte il bisogno di parlare sinceramente. In questa ideologia, se non fai il tweet giusto o non condividi lo slogan giusto, tutta la tua vita potrebbe essere rovinata». Il dibattito è ovviamente arrivato anche in Italia, dividendo giornalisti e osservatori.

Da una parte c’è chi considera la cancel culture una realtà anche qui. Dall’altra, chi – come Francesco Cundari in un articolo per Linkiesta – pensa che siamo in un paese in cui «è possibile dire in televisione e scrivere anche sui giornali più blasonati, senza che nessuno se ne scandalizzi e spesso neanche se ne accorga, cose che negli Stati Uniti sarebbero causa di licenziamento». E che le urla alla cancel culture e al «non si può più dire niente» qui siano «solo l’ultimo rifugio dei prepotenti». È vero, siamo un paese meno puritano e più incline al perdono.

Dalla cancel alla compassion culture

Come ne usciamo? Betty Hart, attivista, ha suggerito di sostituire la cancel culture con la compassion culture. La cultura della compassione e dell’empatia. L’illiberalità vive grazie a due precondizioni, a due assenze.

La prima è l’assenza di dubbi.

La seconda è l’assenza di fiducia nell’abilità umana per eccellenza, quella che ha permesso a noi umani di stare al mondo: l’abilità di evolverci.

La cancel culture dà per scontato che chi ha fatto una battuta razzista dieci anni fa sia la stessa persona di oggi. Eppure, basta guardare a chi eravamo noi dieci anni fa per capire quanto si cambi (e possibilmente si possa migliorare) nel tempo. Provate a fare questo: ripercorrete all’indietro il feed del vostro Facebook. Rileggete i vostri post, specie i primi in cui scrivevate senza avere ancora in testa l’idea di un pubblico che vi leggesse. Quanti di quei post, se venissero mostrati a una folla poco generosa nei vostri confronti e priva del concetto di dubbio, vi esporrebbero al pubblico ludibrio?

La verità è che non so nemmeno quantificare le cose dette o fatte in questi anni, sui social come nella vita reale, di cui oggi non vado fiero. Così come non so neanche prevedere tutte le cose che nei prossimi giorni dirò o farò e di cui tra qualche decennio mi vergognerò. Perché nessuno di noi è immutabile e perfetto. Nessuno di noi è definito da come appare nei social o da una singola frase. Siamo tutti, stupendamente, umani. La cosa più saggia che possiamo fare è provare ad abbandonare la tentazione moralizzatrice-linciante, constatare la nostra differente ma uguale imperfezione e abbracciare la compassione. Che letteralmente significa “soffrire insieme a qualcuno”. Qualcuno di diverso da noi.

Immaginate il pranzo di Natale. Avrete sicuramente uno zio, un nonno o addirittura un genitore che dirà frasi per voi inaccettabili. Magari contro gli immigrati o contro le persone Lgbtq+. Avete due scelte. Alla prima frase che non condividete (e credetemi, nei miei pranzi di Natale non ne condivido a centinaia) potete decidere di cancellare quel parente, non partecipare più ai pranzi e non invitarlo più ai vostri pranzi di famiglia. In quel caso voi non lo vedrete più e lui non ascolterà neanche più il vostro punto di vista. Oppure, potete scegliere di andare lo stesso ai pranzi, di ascoltare quelle frasi, criticarle o ascoltarle in silenzio. Potete cioè “soffrire” assieme a lui. Perché quelle frasi, per quanto inaccettabili, non definiscono per intero la sua persona, ma solo un pezzetto della stessa. Andando ai pranzi di Natale, nonostante tutto, voi scegliete il tutto, il pacchetto completo, che è sempre più valido di un singolo pezzo.

Il crollo del contesto, la cancel culture, i linciaggi sono solo l’estremizzazione e la stortura di un certo modo di fare attivismo, anche e soprattutto sui social. Per capire come ci siamo arrivati, dobbiamo fare un passo indietro. Al 2001. Al G8. A Genova.

Da Genova 2001 al Black Lives Matter

I no-global e l’autonarrazione dei movimenti

Ricordate la Diaz, Bolzaneto, i pestaggi, le torture? Furono tre giorni scarsi. C’erano i black bloc, i giornalisti, gli uomini più potenti del mondo, e i poliziotti. Fu forse la fine di un movimento, certamente l’inizio di qualcos’altro.

Il movimento erano quelli che con sufficienza chiamavamo «no-global»: un conglomerato internazionale di Ong, associazioni e singoli individui che in qualche modo erano contrari alla globalizzazione. Una sola vocale, sei lettere, tre sillabe, due parole, entrambe internazionali . Un hashtag prima degli hashtag. L’estetica era data da magliette senza logo, scarpe senza logo, cappellini scuri, maschere antigas, striscioni contro le multinazionali. Privo di leadership , il movimento è stato negli anni criticato per il messaggio considerato vago: parlava di un «altro mondo possibile», senza indicare quale. E due mesi dopo arrivò qualcos’altro di cui parlare: due aerei fecero cadere le torri del World Trade Center a New York; l’America invase prima l’Afghanistan e poi l’Iraq; milioni di manifestanti contro le multinazionali iniziarono a mescolarsi a milioni di manifestanti contro la politica militare di George W. Bush. Il movimento si era diluito. O forse si era allargato. Ma prima di farlo, aveva tracciato la strada per qualcos’altro: l’autonarrazione dei movimenti. Lo dissero persino i magistrati, quando negli anni successivi cercarono con fatica di fare luce su cosa avvenne in quei giorni: fino ad allora, nessun processo, nella storia dell’uomo, si era avvalso di così tante fonti di prova documentali, audio, video e fotografiche come quelli sui fatti di quei giorni.

Le rivolte arabe, social ma non troppo

Tra il 2008 e il 2009 in Tunisia scoppiano alcune proteste contro la corruzione dei funzionari governativi nella cittadina di Gafsa. Schiera l’esercito, incarcera i leader delle manifestazioni e – quando i parenti degli incarcerati iniziano uno sciopero della fame – «uccide» la storia censurando la notizia su tutti i media locali e nazionali. Il movimento di Gafsa, privo incolpevolmente di una sua autonarrazione, è stato ucciso. Due anni dopo, la storia si ripete, questa volta a cento chilometri di distanza da Gafsa.

Nel giro di poche ore le piazze della città in cui il tasso di disoccupazione supera il 30% si riempiono di manifestanti. Sono le primavere arabe. Sarebbe azzardato chiamare le rivolte «Twitter Revolutions» o «Facebook Revolutions». Perché nell’aprile 2011 il numero complessivo di utenti Facebook nella regione araba non superava i ventotto milioni.

Perché coloro che usavano i social non erano poi sempre quelli che andavano in piazza a protestare . Secondo, forse ancora più importante, hanno permesso di aggirare la censura dei regimi, di portare nelle nostre stanze i video dei pestaggi e le foto delle torture, mobilitando l’opinione pubblica occidentale e più in generale la comunità internazionale. Durante le primavere, la gran parte dei governi si sono limitati a rallentare la velocità della connessione per rendere più difficile la condivisione all’esterno di materiali multimediali come foto e video. Ma pochissimi si azzardano a bloccare i social.

È molto più difficile privare improvvisamente i cittadini di un social che usano per comunicare con i familiari, per corteggiarsi tra di loro, o appunto, per condividere l’ultima foto del loro «tenero gatto». Il rischio di proteste trasversali sarebbe fortissimo.

Occupy, il movimento che si fa hashtag

Se nel 2011 i ragazzi arabi iniziano le loro proteste grazie a Facebook, quelli occidentali lo iniziano anche grazie al 4G. Sabato 17 settembre 2011, ispirati dalle proteste tunisine, settecento ragazzi e ragazze americani si ritrovano vicino al famoso Toro di Wall Street a Manhattan. Marciano contro le ingiustizie sociali create dal sistema finanziario fino a Zuccotti Park, vicino a Ground Zero. A fine serata in duecento decidono di piantare le tende nel parco e di passare la notte lì. Quella che doveva concludersi come una anonima manifestazione pomeridiana si trasforma in un’occupazione pubblica di due mesi. I ragazzi diventano un movimento: #OccupyWallStreet. Hanno un hashtag che presto viene riciclato in tutto il mondo; hanno un manifesto, o meglio uno slogan che fa subito centro («Noi siamo il 99%»); una loro estetica riconoscibile (lo Zuccotti Park, i sacchi a pelo) e una potenza social micidiale: i video dell’occupazione vengono presto diffusi su Facebook, grazie al 4G che permette di inviare file dal cellulare molto più facilmente. Il movimento è il primo a filmarsi in diretta. Zuccotti Park si riempie di ragazzi che girano con la telecamera e trasmettono in streaming su qualche sito. Uno dei momenti che fa esplodere il movimento è proprio un video in cui un poliziotto spruzza spray urticante contro dei manifestanti inermi a terra.

Quello che manca al movimento sono un leader formale e una serie di proposte. Occupy è un movimento aperto, collaborativo, contrario a qualsiasi istituzionalizzazione e struttura piramidale. Le decisioni devono essere prese quasi tutte all’unanimità, in “assemblee generali” e tramite un complicatissimo sistema di gesti della mano: dita agitate per votare Sì, pugni abbassati verso terra per votare No, polsi incrociati per votare No deciso. Il sistema deve essere più inclusivo possibile, ma quando sono tutti a decidere, non decide più nessuno. E quando non si decide più, ogni movimento finisce per parlare su e di se stesso. Come ha spiegato un osservatore solidale di Occupy Los Angeles deluso dal movimento: «Tre settimane dopo l’occupazione, il gruppo passava più tempo a discutere le proprie procedure che a fare altro».

Presto Occupy si ritrova senza proposte concrete.

  • Ho una visione e un obiettivo preciso, misurabile e difficilmente equivocabile.
  • Poi inizio a ragionare sul cosa:
  • Infine ragiono sul come
  • Quando un movimento non ha una proposta o un obiettivo di protesta sufficientemente preciso e concreto, spesso rischia purtroppo di rimanere un “momento”. Ovvero, un momento di protesta, teso a parlare più di se stesso che dell’oggetto della sua protesta.

Nel suo articolo “How Occupy Wall Street spawned a decade of protest, politics, and social media”, scritto una decina d’anni dopo l’inizio del movimento, il giornalista Sean Captain – che ha seguito e raccontato Occupy fin dal primo giorno – è stato lapidario:

«A corto di leadership e di richieste, l’unica cosa che ha tenuto uniti gli occupanti di Zuccotti Park è stato lo sforzo di tenere occupato lo stesso parco. E una volta che la violenza della polizia è aumentata, Occupy è diventata sempre più una protesta per il diritto stesso di protestare».

È stato un movimento inutile? Tutt’altro.

  • Occupy ha creato un nuovo vocabolo politico e ha rimesso al centro della discussione statunitense la disuguaglianza. Un tema destinato a durare, cavalcato da Donald Trump a destra – che ha scatenato gli istinti della working class contro “l’élite” della Casa Bianca – e da Joe Biden a sinistra, con i suoi fondi da trilioni di dollari da investire in servizi sociali e lotta al climate change.
  • Ha introdotto un nuovo tipo di protesta negli Stati Uniti, basata sulla creazione di luoghi e momenti pubblici di discussione collettiva di temi economici.
  • È stato il primo vero movimento occidentale che ha usato in modo massiccio i social.
  • E ha reso popolare l’idea dell’organizzazione e della creazione online di un movimento attraverso l’uso degli hashtag.
  • In definitiva Occupy ha ispirato e coltivato una generazione di nuovi attivisti, che hanno dato linfa a movimenti già esistenti o sono andati a creare nuovi movimenti.
  • Tra essi, quello che «The New York Times» ha definito «il più grande di tutta la storia degli Stati Uniti»: il Black Lives Matter.

Il Black Lives Matter, e quella scala della partecipazione

La prima volta che l’hashtag #BlackLivesMatter appare è il 13 luglio 2013. L’America attende il verdetto nei confronti di George Zimmerman, accusato dell’omicidio di Trayvon Martin, diciassettenne nero. Il 26 febbraio, verso le sette di sera, Trayvon sta camminando per una strada di Sanford, cittadina della Florida. George Zimmerman, ispanoamericano, è un vigilante volontario delle ronde di quartiere.

Per l’accusa, Zimmerman ha ucciso il ragazzo esclusivamente su una sua deduzione personale e dopo aver cercato lo scontro. Per la difesa, Zimmerman è stato assalito e sbattuto a terra e si è difeso aprendo il fuoco. Lo stesso «New York Times» scriverà che l’accusa non è riuscita a trovare nessuna prova convincente, ma ha basato la sua tesi sulla figura e la personalità di Zimmerman, rappresentato come un uomo pieno di rancore e odio. È un fatto, concluderanno i giudici, che non sono stati provati né l’intento di Zimmerman di uccidere il ragazzo né il movente razziale da parte dell’uomo.

Quando questa non arriva, per le strade e sui social scoppia l’indignazione. Invita tutti a unirsi nella lotta, perché «black lives matter». Per James Lance Taylor, professore di Politica all’università di San Francisco e autore di Black Nationalism in the United States, è lo slogan più potente dai tempi di Black Power, un ombrello per tutte le campagne social contro la povertà, la disuguaglianza, l’assistenza sanitaria, il sistema carcerario e tanto altro. Da loro ricevono consigli su come contrapporsi alla polizia durante le cariche, proteggersi dagli spray, usare l’app di messaggi criptati Signal, raggiungere i media tradizionali.

Le tre cofondatrici decidono di rendere #BlackLivesMatter decentralizzato e spacchettato in trenta "filiali" in giro per l’America. Nell’anno successivo, #BlackLivesMatter diventerà uno dei marchi più riconoscibili al mondo. Travis Gosa, professore della Cornell University, ha spiegato che, a differenza dei movimenti dei diritti civili degli anni Sessanta, «Black Lives Matter ha una strategia più populista», nel senso nobile del termine.

Il vecchio e il nuovo potere

Jeremy Heimans ed Henry Timms nel loro saggio New Power spiegano che nell’epoca dei social non vince chi accumula, ma chi sa sfruttare al meglio gli strumenti della rete. È detenuto da molti, aperto, partecipativo, paritario e tende – anziché all’accumulo – alla circolazione. Il nuovo potere, spiegano, si fonda sull’autogestione anziché sul managerialismo, sulla collaborazione anziché sulla concorrenza, sull’etica del "fai-da-te" anziché sulla competenza specializzata, e sull’adesione a breve termine anziché su quella a lungo termine. Oggi, grazie all’ubiquità dei social, possiamo riunirci e organizzarci superando ogni confine.

Le barriere della partecipazione si abbassano. L’attivismo del like rischia di essere soltanto la versione più patinata del "Condividi se hai un cuore" apposto sulle foto dei bambini denutriti che ogni tanto vediamo ancora su Facebook. Malcolm Gladwell sul «New Yorker» ha parlato di "legami deboli" tra partecipanti e movimenti nati sui social, contrapposti ai legami forti dei movimenti che si concretizzano nella vita fisica. Se prima dei social la distinzione era quasi duale , ora il sistema di partecipazione è più fluido, strutturato secondo una scala di coinvolgimento.

«Black Lives Matter», prosegue Gladwell, «ha messo in piedi il movimento per la giustizia razziale più efficace dai tempi del movimento per i diritti civili, sfruttando una combinazione» di "legami deboli" e azioni più impegnative a livelli più alti della scala della partecipazione.

#MeToo, l’hashtag è in prima persona

L’hashtag, come per #BlackLivesMatter, era nato diversi anni prima. Cerca su Twitter donne che hanno usato nei loro tweet di testimonianza sia l’hashtag #MeToo che l’hashtag #JamesToback. Forma con loro un gruppo Twitter privato. Nei giorni dopo l’articolo, altre trecento donne accusano Toback.

Un’infrastruttura digitale e universale tramite cui donne di tutto il mondo possono raccontare le presunte molestie ricevute. «L’aspetto più incredibile del #MeToo è stata la sensazione di potere che ha dato a chi vi ha preso parte» spiegano Heimans e Timms in New Power. «Tante donne che per anni si erano sentite impotenti rispetto ai propri molestatori o temevano ritorsioni trovavano improvvisamente il coraggio di denunciarli. Ogni storia individuale veniva rafforzata dall’impeto di una corrente molto più vasta.

Ogni atto di coraggio individuale veniva reso collettivo». Credo che, ancora più di #Occupy, sia stato il #MeToo a cambiare il nostro modo di fare l’attivismo sui social. A partire dall’hashtag. #MeToo ha qualcosa di diverso.

Dentro c’è quella che la giornalista canadese Jia Tolentino, autrice di Trick Mirror, ha chiamato «l’Io di internet». Ci incoraggiano a esprimere solidarietà mettendo in mezzo la nostra identità. Identità di uomini, di neri, di donne, di grassi. « Può far sembrare che sostenere qualcuno significhi condividere letteralmente la sua esperienza, che la solidarietà sia una questione di identità piuttosto che di politica e di morale, e che sia meglio stabilita in un punto di massima vulnerabilità reciproca nella vita di tutti i giorni».

Il modo più efficace per esprimere solidarietà è dunque quello di "mettersi in mezzo", raccontare le esperienze, le ferite personali che ci accomunano ad altri. L’hashtag #MeToo, il suo design e i tweet che ha originato, per Jia Tolentino faceva sembrare che il punto cruciale del femminismo non fossero proposte e rivendicazioni concrete e precise, ma «un’articolazione della vulnerabilità stessa». L’hashtag ha reso indistinguibile la solidarietà femminista e la vulnerabilità condivisa, ha fatto intrecciare indissolubilmente solidarietà, visibilità, identità e autopromozione, in una sorta di corporativismo della sofferenza. «Come se fossimo incapaci di costruire solidarietà attorno a qualsiasi altra cosa.

Ciò che abbiamo in comune è ovviamente essenziale, ma sono le differenze tra le storie delle donne – i fattori che permettono ad alcune di sopravvivere e costringono altre a soccombere – a illuminare i vettori che portano a un mondo migliore. » .

Da Nino Manfredi a Fedez, l’attivismo delle celeb

Star “schierate”

A guardare indietro, ogni epoca ha avuto personaggi in qualche modo “famosi” che si sono esposti su temi precisi, chirurgici, che non fossero le generiche appartenenze di partito o le visioni sistemiche del mondo. Dopo gli anni Sessanta in America alcuni sportivi diventano anche icone politiche.

In Italia, in assenza del flusso informativo continuo dei social, il dibattito si concentra in occasione di eventi specifici come i referendum su determinati diritti. Le celebrity venivano ospitate all’interno di piani di comunicazione di altri (partiti o comitati per i referendum).

I più attivi nel reclutamento erano i Radicali. Nel 1974 per esempio si tiene il referendum per abrogare il divorzio. Il comitato per il No (quindi favorevole a mantenere il divorzio) realizza una serie di spot tra cui uno con Nino Manfredi che esprime una critica alla chiesa che poteva causargli qualche rischio professionale, vista l’influenza della Chiesa nel 1974.

In un Ted Talk avevo provato a sintetizzare le domande che mi faccio ogni volta per valutare il valore intellettuale di un creator che mi parla.

Il creator che mi parla d’attualità è aperto al confronto?

La più importante, forse, è se è aperto al confronto: se ascolta, approfondisce e soprattutto è in grado di espormi le tesi di chi non la pensa come lui. Definire “omofobo” chi critica una certa legge non significa alimentare il dibattito, significa soffocarlo. Intervistare in una live chi la pensa esattamente come te non significa confrontarsi, significa spalleggiarsi. Definirsi “offesi” non significa automaticamente avere ragione. Limitarci a delegittimare chi non la pensa come noi, o a definirci offesi dalla sua opinione, è strategia buona per l’engagement, ma non per la nostra crescita. Perché una cosa che non si contamina non rimane pura, diventa sterile. Diventa fascismo digitale, pronto a scagliarsi contro chi la pensa diversamente.

L’abbiamo visto anche in Italia tra il 2020 e il 2021 con il disegno di legge Zan, che voleva introdurre in Italia il reato di omotransfobia. Una misura di buon senso già presente in altri paesi si è trasformata in una legge manifesto per entrambe le parti: da una parte demonizzata perché avrebbe aperto alle supposte teorie del gender; dall’altra mitizzata perché avrebbe introdotto diritti sacrosanti che altrimenti non esisterebbero. In rete la protesta è stata guidata da star italiane. C’era chi si faceva il selfie con la scritta “DdlZan” sulla mano. Chi come Fedez attaccava frontalmente i parlamentari della Lega che ostruivano il disegno di legge. Il dibattito si è polarizzato. Le parti irrigidite. Nessuna delle due voleva cedere di un millimetro, perché cedere di un millimetro si pensava significasse tradire la propria identità. Il Ddl non è stato più considerato una piattaforma da modificare, e magari anche arricchire, tramite il sano dibattito parlamentare. È diventato un manifesto identitario intoccabile: da bocciare così com’era per alcuni, e da approvare così com’era per altri. Come sempre quando non c’è più margine per dibattito e contenuti, di concreto sono rimasti solo la pura tattica politica, i tecnicismi, le trame di partito. Prima della fine del 2021 il Ddl è stato bocciato in Senato. A proposito di confronto, personalmente una delle interviste più interessanti che ho fatto durante la pandemia è stata proprio a Simone Pillon, senatore della Lega, il più acceso oppositore al Ddl Zan. Non perché fossi d’accordo con lui, ma proprio perché in gran parte non lo ero.

Qualcuno è in disaccordo con quello che sta dicendo?

Quando sento qualcuno parlare di attualità o lo vedo fare attivismo, mi chiedo sempre se stia dicendo qualcosa con cui qualcuno può esplicitamente essere in disaccordo. Se si limita a dire che è "contro il razzismo", "per l’ambiente", o "per l’empowerment", sta solo riproponendomi una versione un po’ più patinata del classico "Voglio la pace nel mondo" . Prendiamo LeBron James. Uno con una storia da film, cresciuto in un ghetto e diventato uno dei migliori giocatori di basket, oltre che punto di riferimento politico sui temi del razzismo per milioni di giovani.

LeBron è uno dei più attivi a schierarsi contro le politiche di Donald Trump e ad appoggiare il movimento Black Lives Matter, scendendo più volte in campo con la maglietta recante messaggi di solidarietà. «C’è stato un tempo in cui gli atleti non avevano il coraggio di parlare di attualità» dice. « Noi non rimarremo zitti a palleggiare.» Ma c’è un momento in cui LeBron invita un’altra persona a rimanere zitta. Un messaggio tutto sommato innocuo, ma non per il Partito comunista cinese.

Il consolato cinese di Houston denuncia il povero Morey. La Nike, la stessa Nike che consigliava di «credere in qualcosa anche a costo di sacrificare tutto» sponsorizzando Colin Kaepernick che si batte contro il razzismo, ritira le magliette dei Rockets dai suoi negozi in Cina. LeBron James, campione da sempre a supporto della giustizia sociale, attivista Black Lives Matter e difensore della libertà d’espressione degli sportivi, si trova in tour in Cina nel momento della polemica. « Abbiamo la libertà di parola, ma ci sono cose negative che ne possono derivare».

Un discorso che non ha moltissimo senso, considerato il tweet di Morey , e considerando la figura di LeBron. Al di là di come la si pensi, il punto è quello del rischio e del coraggio. È un fatto che LeBron possa criticare apertamente Donald Trump ed entrare in campo con le magliette a favore del Black Lives Matter senza rischiare concretamente niente, dal punto di vista fisico, spirituale o soprattutto finanziario . Ma è anche un fatto che, criticando la politica del regime cinese nei confronti di Hong Kong, lui e l’intera Nba possano perdere preziose opportunità di business in Cina.

A un certo punto ha detto che lui fa quello che fa – ovvero attaccare politici di destra e schierarsi sul Ddl Zan – «in barba alle conseguenze» che può subire. Quando gli ho chiesto di circoscrivermi e quantificarmi queste conseguenze, per fortuna si è limitato a parlare di qualche articolo di giornale a lui ostile. Per fortuna siamo in un paese in cui schierarsi a favore di determinati temi non comporta conseguenze negative.

Ok, ma cosa sta facendo?

Terza domanda per valutare la mia personalissima attendibilità su un attivista: cosa sta facendo quel creator per definirsi attivista? Perché sui social l’attivismo non contempla più necessariamente quello che per secoli ha avuto come requisito: un’attività. Nelle sue versioni di performattivismo, l’attivismo basta a sé come lifestyle, come autodefinizione in bio, come autonarrazione identitaria. Sono un attivista green perché fotografo la mia borraccia. Sono femminista perché nelle mie stories attacco meglio degli altri gli accusati di molestie. Adoro e considero fondamentali i simboli. Ma sono fondamentali perché sono appunto simbolici di qualcosa di concreto a loro sottostante . Se rimangono l’unico obiettivo di campagne social che in essi si esauriscono, li considero buoni soltanto per le cover dei cellulari e per fare engagement.

Prendiamo l’atto di inginocchiarsi per protestare contro il razzismo. Nasce nel 2016 , ma ritorna virale nel 2020, dopo l’omicidio di George Floyd: ricorda la posizione del poliziotto Derek Chauvin e diventa il simbolo del Black Lives Matter. La Nazionale prima dice che permetterà l’inginocchiamento ai singoli giocatori. Poi dice che si inginocchierà tutta se lo farà anche l’altra squadra. Una soluzione a metà tra un congresso dei democristiani e un film dei Vanzina. Ma forse inginocchiarsi non è né un pregio né un difetto di per sé. È un gesto, un simbolo. E quindi è simbolico, appunto, di una lotta attiva e fattuale, che può consistere nel fare nomi, nello scagliarsi contro qualche obiettivo in modo specifico, rischiando concretamente qualcosa, aprendo un dibattito, trovando dei nemici. Va benissimo inginocchiarsi per il Black Lives Matter e contro il razzismo americano.

La differenza tra attivismo e performattivismo

È un modo elegante come un altro per posizionarsi, che grazie ai social, al fenomeno della cassa di risonanza e alle più immediate opportunità di monetizzazione è cresciuto più di altri. Qui l’attivismo – un tempo azione collettiva – viene più naturale come momento individuale. Sì, certo, ci sono le catene, gli hashtag e le challenge, ma è un fatto che i social si prestino ad azioni riprese individualmente. Perché con i social, la mostra di virtù è direttamente monetizzabile.

« La community segue in virtù dell’identità del seguìto, e questa identità non può contenere troppe incongruenze. Coi social ci siamo chiusi a chiave nella stanza della nostra identità sulle cui pareti si specchia il nostro volto mentre il pubblico applaude. Siamo un milione di cose diverse, e l’identificazione coatta con un solo elemento è una gabbia dalla quale scappare anche quando ci fa guadagnare migliaia di euro, perché nel momento in cui le persone diventano brand permettersi di cambiare idea, di farsi attraversare dalle cose che si vedono o si pensano, è impossibile. Sui social bisogna essere coerenti. »

Come se la conduzione di determinate battaglie – in alcuni casi – si riducesse semplicemente a mostrare la nostra identità. Identità di indignati, identità di vittime, identità di buoni. «Per essere ammessi al gioco bisogna cedere brandelli di intimità in cambio di fama e follower.» E i brand stanno iniziando a regolarsi di conseguenza.

Dalla Croce Rossa al brand activism

Effetto Greta

Ogni anno l’agenzia di comunicazione Edelman intervista migliaia di persone in giro per il mondo chiedendo loro di chi si fidino di più per risolvere i problemi del mondo. Il mondo delle aziende è ritenuto più affidabile di quello politico in diciotto nazioni su ventisette. Nel 2005, un professore di scienze sociali di Harvard condusse un esperimento in un negozio di prodotti casalinghi di New York, dove erano esposte due marche di asciugamani in vendita, entrambe composte da cotone organico. Dentro l’etichetta, si leggeva come quel particolare asciugamano fosse stato «prodotto in condizioni di lavoro dignitose, in un ambiente di lavoro sicuro e salutare», ecc.

ecc. Nel primo mese, con i prezzi invariati, le vendite del gruppo di asciugamani con l’etichetta "virtuosa" salirono dell’11%. Il secondo mese, il professore alzò il prezzo degli asciugamani virtuosi del 10%. Bene, le vendite non solo non diminuirono, ma crebbero di un ulteriore 20%, generando un aumento del guadagno del 62%.

Il terzo mese alzò ancora il prezzo, di un altro 20%, e notò un ulteriore aumento delle vendite del 4%. Esperimenti simili mostrarono una crescita delle vendite di alcuni dentifrici e shampoo collegati a qualche tipo di causa sociale rispettivamente del 28% e del 74% rispetto alla concorrenza. Gli investimenti delle aziende per compensare le emissioni di CO2 salgono del 156% anno su anno. La percentuale di americani consapevoli del cambiamento climatico schizza al 75%, il dato più alto di tutti i tempi.

Personalmente sono un po’ diffidente sull’intensità del virtuosismo climatico della nuova generazione consegnataci ogni giorno dai sondaggi d’opinione. Rivolgendosi alla Generazione Z, il comico americano fa notare quella che definisce una dissonanza cognitiva tra l’autonarrazione della Gen Z "impegnata" e i suoi comportamenti. «Greta magari sarà la "coscienza" della sua generazione, ma non è certo la sua rappresentante. Greta ha tredici milioni di follower su Instagram, Kylie Jenner ne ha duecentosettantanove. »

Adorano Kylie Jenner, che abbraccia e mostra uno stile di vita che è l’opposto di quello carbon neutral . « Fino ad allora, smettetela di continuare ad accusare la vecchia generazione e di considerarvi meglio di noi. » Le parole di Bill Maher vanno prese ovviamente nel suo stile ironico e iperbolico. È una paura più quotidiana e frustrante.

Uno stillicidio continuo, che provoca negatività, rabbia e soprattutto risentimento verso il mondo degli adulti. L’arma comunicativa di Greta, quella che fa breccia nel movimento, è la rabbia giovanile. La rabbia è più che comprensibile, specie per una storia trentennale di annunci in parte disattesi o di accordi non vincolanti. C’è però sempre un ulteriore grado di complessità, a cui non dobbiamo mai rinunciare nelle nostre discussioni e mobilitazioni online.

Uno dei nemici della lotta al cambiamento climatico

Alden Wicker, giornalista specializzata nella moda sostenibile, disse: «Il consumo consapevole è una bugia. I piccoli passi dei consumatori consapevoli – riciclare, mangiare a km 0, comprare camicie di cotone organico anziché poliestere – non cambieranno il mondo». Wicker forse esagerò, ma cercava di sostenere il suo punto: «Prendere soltanto una serie di piccole decisioni di acquisto etiche, ignorando però al tempo stesso gli incentivi strutturali per aziende basate su business insostenibili, non cambierà il mondo così velocemente come vogliamo. Ci farà sentire soltanto meglio con noi stessi».

Per lei «il movimento della sostenibilità viene accusato di essere elitario, e quasi certamente lo è. Hai bisogno di un buon reddito per permetterti di fare acquisti etici [...] ti mette al riparo da accuse di ipocrisia. Ma non è un sostituto del cambiamento strutturale». Disfattismo? No. Per lei, ognuno di noi deve continuare a fare ciò che sente giusto. E anzi, un comportamento coscienzioso aiuterà sempre di più il cambiamento. «Ma per combattere il riscaldamento climatico, l’inquinamento e la distruzione della Terra dobbiamo prendere piuttosto i soldi, il tempo e l’energia che spendiamo per fare scelte prive di effetti concreti e investirli in qualcosa che importi veramente.» A livello globale, spiega, nel 2017 abbiamo speso 9,3 miliardi di dollari in prodotti di pulizia eco-compatibili. «Se avessimo speso appena un terzo di quei soldi per fare lobbying sui governi affinché mettessero al bando i prodotti chimici tossici da cui siamo così spaventati, forse avremmo fatto molti più progressi.»

Una delle voci più critiche nei confronti dell’attuale approccio alla crisi climatica è quella di Bjørn Lomborg. Non nega l’impatto climatico e i disastri a cui potrebbe portare la Terra, ma condanna quello che ritiene un allarmismo ingiustificato e le continue deadline sulla fine del mondo. Nel 2019 il principe Carlo, storicamente molto attento al cambiamento climatico, disse che avevamo appena diciotto mesi per risolvere il climate change o sarebbe stato troppo tardi. La questione, per Lomborg, è che l’allarmismo ambientale «ci fa ignorare altre sfide umanitarie» secondo lui più «urgenti e risolvibili», come la lotta alla malaria, all’Aids, alla fame nel mondo e i conflitti globali.

« Dobbiamo mettere da parte il panico, guardare alla scienza, affrontare l’economia e il problema razionalmente.» Per Lomborg la soluzione al climate change arriva da cambiamenti strutturali e più investimenti in ricerca e innovazione, più che da singole azioni personali o azioni "virtuose" promosse dai brand. Quando gli chiesero cosa si sarebbe impegnato a fare per la sostenibilità, promise che avrebbe staccato il caricatore del cellulare quando non in uso. Il caricamento del cellulare contribuirebbe a meno dell’1% dell’energia consumata da un cellulare. Il 99% viene dalla produzione del cellulare stesso, dal funzionamento dei centri dati e delle celle telefoniche a cui si appoggia.

Secondo caso, la decisione e l’invito di molti, tra cui Greta Thunberg, a non prendere più aerei. «Se da domani e fino al 2100 nessuno di noi prendesse più un aereo,» scrive Lomborg «l’aumento della temperatura sarebbe ridotto di appena 0,05 °C. Praticamente, equivarrebbe a ritardare il cambiamento climatico di meno di un anno rispetto al 2100». Il movimento ambientalista ha subito un impulso senza precedenti grazie a Greta e ai ragazzi della Generazione Z. Il movimento per la lotta al cambiamento climatico, che aveva piantato le sue basi più di cinquant’anni prima, negli anni Dieci del XXI secolo è stato pressoché ignorato nelle agende politiche.

«Non comprate questa giacca»

Per gli autori del libro New Power, due aziende che rappresentano più di tutte i nuovi modelli e strutture aziendali sono Airbnb e Patagonia. La seconda ha stretto un patto con i suoi clienti-utenti per promuovere cause come la lotta al cambiamento climatico e al consumismo esasperato. Potrebbe essere scambiata tanto per una media company, quanto per un partito politico, una comunità spirituale o un’associazione filantropica. La forza di una brand nation non si misura col numero dei suoi sostenitori ma tramite l’intensità e la lealtà con cui ogni consumatore condivide e crede nei valori dell’azienda.

Le categorie dell’attivismo dei brand sono sei, individuate dal padre del marketing moderno, Philip Kotler:

  • sociale (uguaglianza di genere, diritti Lgbtq+, lotta alle discriminazioni razziali);
  • ambientale (riscaldamento climatico e sostenibilità);
  • lavorativa (organizzazione aziendale, compensi);
  • politica (diritto di voto);
  • economica (politiche retributive)
  • giuridica (come le leggi sulle tasse o sulla cittadinanza).

Nike just did it

Kaepernick viene attaccato da Trump, non si vede rinnovato il contratto dai San Francisco 49ers e non viene preso da nessun’altra squadra. Nel 2018, ormai disoccupato, in causa con l’intera Nfl e in rotta con l’uomo più potente del mondo, viene scelto dalla Nike per uno spot rimasto nella storia. Nel giro di poche ore dalla pubblicazione della pubblicità sul profilo Twitter dello stesso Kaepernick, l’adv diventa virale, viene commentata in ogni trasmissione sportiva e divide gli appassionati. Nelle ventiquattro ore successive alla pubblicazione dell’adv, secondo Bloomberg l’azienda ottiene un’esposizione mediatica quantificabile in oltre quarantatré milioni di dollari.

Se prendiamo i consumatori Nike negli Usa, «due terzi di loro sono under 35». Possono permettersi un paio di Flyknit da centocinquanta dollari, probabilmente dispongono di un reddito medio-alto, ambiscono a vivere in città, alla ricchezza e al progresso. Progressista.» Quindi a favore di Kaepernick. » Su trentacinque miliardi di ricavi, ne restano appena cinque a rischio, ovvero quelli spesi da clienti Usa che potrebbero sentirsi offesi dalla campagna. »

«Realisticamente Nike ha rischiato solo due-tre miliardi di dollari.» Ha rischiato di alienarsi il 5-10% dei suoi clienti, rafforzando però la propria relazione con il restante 90-95%. » I consumatori più coscienziosi, dice, quelli con il più alto tenore di vita e capaci di orientare i propri acquisti, sono in fondo quelli più progressisti e attenti a determinati temi. » I patrioti «che hanno bruciato le loro Nike» sono quelli che forse «dovranno ricomprarsele a rate». » Quelli che possono permettersi di comprarsele, sono già contro il razzismo e per Colin Kaepernick. »

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Yep, occhio ai dettagli

Quando nel 2020 il Ceo di Goldman Sachs annuncia in pompa magna che la banca d’affari non lavorerà più con aziende che non abbiano almeno una donna nel loro consiglio d’amministrazione, da almeno un anno tutte le aziende dello Standard & Poor 500 hanno almeno una donna nel loro board. Tanto più che la nuova regola di Goldman Sachs riguarderà soltanto gli Stati Uniti e l’Europa. Farvi dimenticare le polemiche di qualche mese prima, quando Amazon aveva licenziato alcuni lavoratori che avevano osato parlare sui social media delle condizioni di lavoro nei magazzini della società». » » Il punto è che il mondo è complicato, con le sue differenze, i suoi valori, le sue suscettibilità e i suoi orrori. »

È ancora più complicato per il Ceo di un’azienda che deve soddisfare contemporaneamente le legittime aspettative degli azionisti sul fatturato e quelle dei suoi consumatori sui valori. » » Un colosso come la Disney, al momento di lanciare un prodotto dall’esperienza univoca come un cartone o un film, dovrà valutare attentamente le ragioni di opportunità di quel prodotto tanto in Francia quanto in Cina. » Nel 2016, quando con la sua Marvel Comics lavorava alla versione cinematografica del fumetto «Doctor Strange», si ritrovò davanti a un dilemma. » Tra i personaggi più amati del fumetto c’è infatti L’Antico, un monaco tibetano. »

» La Disney poteva aderire al fumetto e rinunciare al mercato cinese , oppure "ritoccare" il fumetto e conquistare quel mercato. »

Il limite del brand activism

Quei lavoratori fino ad allora fedeli alle loro aziende e convinti sostenitori della cultura aziendale vedono improvvisamente i propri dirigenti confrontarsi, se non ammiccare, con il nuovo presidente, l’uomo che rappresenta la distruzione di ogni loro valore. Nel 2018, quando i dipendenti Google scoprono che l’azienda avrebbe offerto una buonuscita da novanta milioni di dollari al cofondatore del software Android, Andy Rubin, accusato di violenza sessuale, in ventimila escono dai propri uffici di tutto il mondo e chiedono la fine delle disuguaglianze di genere e la pubblicazione di un rapporto sulle molestie sessuali in azienda. È la prima volta che i dipendenti di un colosso tech si ribellano apertamente contro la gestione interna della propria azienda. Come quando sempre Google licenzia l’ingegnere James Damore, in quello che a mio parere è a tutti gli effetti un caso di discriminazione politica.

Il buon James va ad ascoltare un meeting aziendale sulla diversity e l’inclusione in Google. Finito l’evento, gli organizzatori gli chiedono un feedback. Scrive una riflessione piuttosto lunga dal titolo «Le echo chamber ideologiche di Google» e la manda agli organizzatori. Dice che riconosce la discriminazione delle donne nel mondo tech, ma sostiene che le politiche di assunzione e promozione di Google sono tarate in maniera eccessiva rispetto a quello che sostengono altri paper psicologici a proposito delle differenze biologiche innate tra donne e uomini.

James è in fondo uno di quei liberali citati dall’«Economist», che vogliono sì pari opportunità ma non necessariamente pari risultati. «Il mio punto è semplicemente che abbiamo un’intolleranza per le idee e le prove che non confermano la nostra ideologia.» Dopo non aver ricevuto risposta dagli organizzatori del seminario, James condivide il suo memo nel gruppo dei dipendenti di Google. Molti dipendenti lo criticano, un altro spiffera il memo ai media, che lo pubblicano. Accusano il povero James di aver sostenuto che alcuni sono biologicamente meno adatti a determinati lavori .

Il management di Google li accontenta. Mette da parte ogni valore di diversity e inclusione e lascia a casa il ventottenne, senza che gli venga mossa un’accusa specifica. Diversity sì, ma non d’opinione. In fondo Google, con quel licenziamento, aveva provato il punto di James a proposito dell’intolleranza interna della stessa Google.

Attivismo o censura?

Con l’avvicinarsi delle elezioni 2020 e la nascita di nuovi movimenti , i dipendenti della Silicon Valley iniziano a protestare contro l’impatto che le aziende per cui lavorano possono avere sul mondo e sulla società. Centinaia di impiegati di Twitter e Facebook pressano per mesi i loro capi perché sospendano l’account di Donald Trump. E centinaia di lavoratori Amazon si rivolgono a Jeff Bezos perché spenga i server a cui si appoggia il social media Parler. È considerata alternativa a Twitter per le sue politiche meno rigide nella moderazione dei commenti.

In seguito alla rivolta avvenuta a Washington a inizio 2020, l’app viene bloccata dai Play Store di Google, sospesa dall’App Store di Apple, e vede i suoi server di Amazon Web Services bloccati dalla stessa Amazon. Hanno bruciato tutte le edicole per non fare uscire più nessun giornale. Esclusivamente per preferenze politiche, si sono sostituite al potere esecutivo e a quello giudiziario. Airbnb ha bannato Ronald Gaudier.

Autoproclamatosi "Proud Boy", aveva annunciato la sua partecipazione a un evento per Trump a Washington, e aveva invitato altre persone a unirsi a lui nel suo appartamento affittato su Airbnb. «Quando le società usano il loro potere sul mercato per stabilire delle regole sociali», ha scritto l’economista di Harvard Greg Mankiw «minano il diritto di altri cittadini di avere la propria voce in una democrazia.» Il rischio del corto circuito micidiale è un triangolo che comprende consumatori, aziende e azionisti. Questi ultimi, pur essendo dei geni del management, non sono necessariamente dotati di abilità e competenze per servire la società, non sono votati, non sono controllati e non hanno un contrappeso. Personalmente, credo sarebbe illusorio e forse ingiusto considerare le aziende come motore del cambiamento su temi sociali e civili.

Molto più probabilmente, le aziende potranno essere sempre più un riflettore e al massimo catalizzatore di cambiamenti che potrebbero essere invocati dai cittadini o dai loro dipendenti in determinate aree del mondo. Accompagneranno e amplificheranno determinate scelte e tendenze che noi stessi creeremo, sui social come nella vita reale. Ma difficilmente traineranno scelte in base a loro impeti di giustizia. Probabile che se domani dovessimo tutti tornare ad amare la plastica, molte aziende inizierebbero a commercializzare i loro prodotti in mega-confezioni di "pura, massiccia plastica".

Da Einaudi ai politici “Snapchat”

Dalle urla in piazza a quelle su Twitter

I politici mobilitano folle, stringono mani, urlano, si sbracciano, usano toni apocalittici, fanno racconti melodrammatici e si lasciano andare a epiteti di ogni genere verso gli avversari. I politici, abituati a urlare nelle piazze, devono rimodulare la loro comunicazione, farla più intima, domestica, rassicurante, rivolta a tutti i membri della famiglia riuniti attorno al caminetto. Il nuovo mezzo restituisce la fisicità ai candidati, sebbene bidimensionale. L’immagine diventa tutto, riducendo sempre più il confine tra politici e celebrity.

Memorabile il suo dibattito tv con Richard Nixon nel 1960 alla vigilia delle elezioni per la Casa Bianca. Chi si limita ad ascoltarlo alla radio è sicuro che a vincere sia stato Nixon, più rassicurante e abile nelle argomentazioni. Ogni volta che un nuovo mezzo irrompe nella società, azzera o quantomeno riduce ogni rendita di posizione preesistente. Persino il politico più popolare fino a quel momento, qualora non riesca a cambiare la sua personalità in base al nuovo mezzo, rischia di venirne travolto e di scomparire dal nostro gradimento e memoria.

I politici più «chiacchierati» sui social sono quelli che ci fanno arrivare non tanto i loro messaggi, quanto la loro personalità.

Quando Grillo anticipò tutti

Credo che il primo grande movimento politico sviluppatosi grazie alla rete e ai social ce l’abbiamo avuto proprio in Italia. Secondo la leggenda è Beppe Grillo a cercare Gianroberto Casaleggio, ex dipendente della Olivetti e fondatore di una società di consulenza strategica di rete. Casaleggio inizia a parlargli della rete, di democrazia diretta, di esperienze wiki, di usabilità, di social network. «Con la rete possiamo bypassare tutti i politici del mondo» spiega Grillo.

In un anno le mail inviate al presidente della Repubblica diventeranno un milione. Il "la" alla rivoluzione della rete è stato dato. Quello che serve a Grillo e Casaleggio è un social, un mezzo che permetta alla community di conoscersi online e incontrarsi offline, per discutere, dibattere e organizzare nuove azioni. Almeno nella loro fase iniziale, quella dominata da entusiasmo attivista, lavorano per migliorare la politica attraverso strumenti di trasparenza e competenza che la rete gli offre.

Lo scontro tra politici “pop” e politici “punk”

Nella loro retorica contro i partiti tradizionali, i 5 Stelle chiedono e ottengono che l’incontro si tenga in streaming, per favorire la trasparenza della politica nei confronti dei cittadini . Bersani, uno dei politici meno avvezzi alla rete, esce da quell’incontro indebolito, fuori tempo e parzialmente umiliato dai rappresentanti del movimento. L’incontro è l’inizio della fine della carriera politica del leader di sinistra. Anni dopo intervistai Bersani.

«La parola "partito" avrà anche tantissimi difetti e sarà anche antiquata» disse Bersani. Tra i 5 Stelle la "folla" cederà progressivamente il passo a una struttura di potere non più distribuita ma centralizzata, in quella Roma del potere politico.

Obama e il “potenziamento” del popolo

Uno dei migliori a "potenziare" il suo popolo è stato ovviamente Barack Obama. Negli stessi anni in cui Grillo fonda i suoi Meetup, in America Barack diventa il simbolo del nuovo potere basato sulla distribuzione. Mentre i suoi colleghi parlano di se stessi e del loro curriculum, Obama usa la prima persona plurale. L’infrastruttura principale è MyBarackObama.

Come Grillo, però, anche Barack Obama progressivamente abbandona quel movimento che lui stesso ha creato, regredendo al vecchio, centralizzato, verticale potere. Una volta eletto nel 2008, infatti, non cura quell’infrastruttura di volontari per farsi aiutare a governare, costruire un consenso attorno al partito o a un suo successore . Addirittura, finisce per incorporare l’infrastruttura e i suoi tredici milioni di membri all’interno del Comitato democratico nazionale, di fatto decretandone la morte.

Trump e i tempi della rete

Il secondo è quello di Donald Trump. Qui r/The_Donald diventa presto il sottogruppo più attivo del mondo, in cui ogni giorno ottocentomila sostenitori cercano di sfornare meme politici in favore del loro idolo, con una riverenza quasi religiosa. Durante la campagna elettorale insulta trecentoquarantadue tra persone, luoghi e cose. Una personalità "Snapchat", che colpisce a intervalli regolari senza mai richiedere una concentrazione costante all’lettore.

Che – facendo proprie le dinamiche social – privilegia lo spizzichino rispetto al pasto, il finger food rispetto al piatto, l’emozione rispetto alla ragione. «Pensano che la televisione stabilirà i punti di discussione della campagna, organizzerà la gara come una serie di storie ordinate e modellerà il modo in cui gli elettori vedono i concorrenti. Magari hanno collaboratori che si occupano dei loro messaggi sui social, ma vedono ancora i social come un mezzo complementare alla copertura televisiva, un mezzo per rafforzare i loro messaggi e le loro immagini, piuttosto che come forza trainante della campagna» scrive Carr. «Anche le organizzazioni giornalistiche tendono a essere lente nell’adattarsi all’arrivo di un nuovo mezzo. »

Durante la campagna elettorale, Donald Trump attacca in maniera indegna il collega repubblicano John McCain, fatto prigioniero e torturato per cinque anni in Vietnam. Una frase incredibile, che in qualsiasi campagna precedente avrebbe comportato qualche giorno di graticola, approfondimenti televisivi, una contestualizzazione degli esperti, una richiesta di scuse, delle scuse, una probabile assoluzione in caso di scuse sincere. E, solo dopo, l’apertura di una nuova narrazione, magari su un altro tema della campagna. In quei giorni, stampa e tv seguono questo canovaccio, concentrandosi sulla frase di Trump con analisi, commenti e rimproveri al candidato.

Ma a causa della rapidità dei social quella storia non andrà mai avanti. Trump, un animale della rete, sa che spesso conviene non scusarsi. Perché tanto le scuse non basteranno mai alla folla, e tanto vale andare avanti. Fa sì che l’attenzione del pubblico si concentri su polemiche sempre nuove, "uccidendo" la storia degli insulti a McCain prima ancora che emerga come tale.

Salvini e i politici perfetti per il nostro “feed”

I messaggi e le conversazioni sono dei lampi, che nulla hanno a che fare con una trama ben definita. Sono i troll naturali, capaci di dividere e polarizzare, con messaggi durissimi, privi di grigi, confezionati per essere condivisi, diventare virali, fare polemica ed essere sostituiti immediatamente da altri messaggi. Uno dei più abili in Italia è sicuramente il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, che riesce a inserirsi perfettamente nei feed social degli italiani con un miscuglio di selfie, foto con cibo, attacchi e messaggi politici taglienti come un machete, brevi e capaci di diventare hashtag ricondivisibili a piacimento. Tre parole, di cui un articolo, perfettamente comprensibili da tutti, riproducibili in ogni contesto , divisive, capaci di chiosare ogni discorso e di diventare esse stesse uno slogan e un hashtag.

Alexandria Ocasio-Cortez, il cerchio si chiude

Il punto più alto della sua comunicazione l’ha toccato proprio dopo la vittoria alle elezioni e il suo debutto al Congresso nel 2018. Qualche giorno dopo si fa filmare mentre balla allo stesso modo di quel vecchio video, ma questa volta dentro i corridoi del Congresso americano. «Se i repubblicani trovano scandaloso che una donna balli in un’università,» recita la didascalia «vediamo cosa penseranno quando vedranno una donna ballare nel Congresso.» Boom. Da allora la Cortez riesce a inserirsi perfettamente nei feed di Instagram con i suoi contenuti "finger food".

Lo storytelling della donna umile catapultata a Washington tocca il suo picco quando inizia una diretta Instagram con i suoi follower seduta sul pavimento del suo nuovo appartamento nella capitale, privo persino di sedie.

La fase ribelle di TikTok

TikTok nato nel 2018. Nei suoi primi anni, quando ancora veniva usato dai giovanissimi, l’aggettivo più usato per descrivere i suoi video era cringe (“imbarazzante”). Ed è stato il suo punto di forza. [...] a differenza che su Instagram o Facebook non si sentono giudicati.

  • Ha cercato di imparare dalle disgrazie altrui e di introdurre strumenti sempre più sofisticati per promuovere contenuti positivi.
  • la parziale rinuncia alla promozione di commenti e interazioni. Il sistema di raccomandazione di TikTok suggerisce continuamente i video che pensa ti piaceranno, non quelli dei tuoi amici o delle persone a cui sei iscritto.
  • Allarga la gamma dei suggerimenti per promuovere la viralità dei nuovi contenuti, incoraggiare nuovi creatori a produrre video e stimolare ancora di più l'esperienza dell'utente. D'altra parte, riduce le interazioni.

Conclusione

E insomma è nelle nostre mani: il futuro dei social, dell’attivismo, dei brand, della politica, ma soprattutto il futuro del nostro essere umani. Meno virtuosi e più fallibili, meno suscettibili e più fattuali. Vi lascio con qualche consiglio che personalmente cerco di darmi – senza sempre rispettarlo – ogni volta che sono in un bar o su un social. Ogni volta che leggo una polemica e sento l’indignazione salire e sento di voler fare qualcosa e l’unica cosa che sto per fare è la cosa più facile per chi non vuole fare veramente qualcosa. A voi.

1. Recupera il “contesto”

Ogni frase, ogni screenshot, ogni estratto video da cui nasce la tua indignazione è sempre parte di qualcosa più grande. Recuperane il prima e il dopo, prima di usarlo per giudicare.

2. Consulta almeno tre fonti

Stampati sulla cover del cellulare la frase: «Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro».

3. Quando ti sembra troppo bella per essere vera, non è vera

È sempre, sempre, più complessa. E magari pure più bella.

4. Sentirsi offesi non significa avere ragione

Non automaticamente almeno. Sentirsi offesi per le frasi o opinioni di un altro – purché formulate con toni pacati e rispettosi – è uno dei rischi previsti all’interno di una democrazia.

5. Ascolta la versione dell’accusato

E fallo con la stessa dignità, rispetto e apertura con cui hai ascoltato quella dell’“accusatore”.

6. Riguarda i tuoi post degli anni passati

Giusto per capire l’aberrante quantità di cose dette o fatte di cui oggi ti vergogneresti. E pensaci un po’ di più prima di linciare qualcuno per il suo passato.

7. Diffida dei perfetti

Le persone che veramente cambiano il mondo, e quelle che storicamente l’hanno cambiato, non sono mai quelle perfette: sono, probabilmente, avide, narcise, dispettose o volgari. Non sono né patinate né cattive: sono vive.

8. Sostituisci la cancel culture con la compassion culture

Chiedere la cancellazione di qualcuno è l’atto che più di tutti preclude la possibilità di evoluzione, a lui come a te. Prova per una volta a «soffrire insieme» a lui.

9. Coltiva il dubbio

Specie quando non ce l’hai.

10. Trova il coraggio

Di individuare i veri bulli, di condividere il tuo pensiero dissonante, di far valere i tuoi principi. Provaci una volta, solo per vedere l’effetto che fa.

Bene, ho finito, basta. Personalmente sono convinto che seguire questi consigli potrebbe renderci la permanenza sui social ancora più divertente e avventurosa, farci scoprire mondi finora inesplorati e renderci ancora più positivi nei confronti della vita. Scopriremo che gli stronzi non sono quasi mai solo stronzi, i perfetti non sono mai solo perfetti e dietro ognuno di loro, e di noi, c’è sempre una storia che merita di essere raccontata. Sui social, ma pure al bar, e comunque nella vita.

Fonti

J. ABRAMSON, Merchants of truth, Simon & Schuster, New York 2019 (tr. it. Mercanti di verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell’informazione, Sellerio Editore, Palermo 2021)

A. AGOSTINI, Giornalismi: media e giornalisti in Italia, il Mulino, Bologna 2012

D. DEFOE, Inno alla gogna, Liberilibri, Macerata 1993

J. RONSON, I giustizieri della rete, Codice Edizioni, Torino 2015

I. SILONE, Uscita di sicurezza, Mondadori, Milano 2018

G. SONCINI, L’era della suscettibilità, Marsilio, Venezia 2021

J. TOLENTINO, Trick Mirror, Penguin Random House, New York 2019 (tr. it. Trick Mirror: Le illusioni in cui crediamo e quelle che ci raccontiamo, NR edizioni, Pescara 2020)

“Quando la gogna sui social media ci sfugge di mano”

www.ted.com/talks/jon_ronson_when_online_shaming_goes_too_far/transcript?language=it

3. Dalla damnatio memoriae alla cancel culture

A. DERSHOWITZ, Cancel Culture, Simon & Schuster, New York 2015

J. HEIMANS, H. TIMMS, New Power: L’arte del potere nel XXI secolo, Einaudi, Torino 2020

D. RUBIN, Don’t burn this book, Little, Brown Book Group, London 2020

WILKERSON, Caste. The origins of our discontents, Random House, New York 2020

“Bello il dibattito sulla cancel culture, ma in Italia è solo l’ultimo rifugio dei prepotenti”

www.linkiesta.it/2020/07/harper-cultura-italia

“Cancel culture, dalle origini alla propaganda dell’estrema destra in USAalle farneticazioni in Italia”

www.valigiablu.it/cancel-culture-origini-italia/

“Canceling cancel culture with compassion”

www.youtube.com/watch?v=pbihoXj0QwM&t=330s&ab_channel=tedxTalks

“Let’s Replace Cancel Culture with Accountability”

www.youtube.com/watch?v=3vCKwoee27c&t=783s&ab_channel=tedxTalks

“Le ultime da Babele. La cancel culture e altre cose che non esistono, tranne quando esistono”

www.linkiesta.it/2021/09/cancel-culture-non-esiste-dibattito-social-network-cancellazioni/

“Ma in Italia esiste la ‘cancel’ culture’?”

www.rivistastudio.com/cancel-culture-cosa-e/

“The Long and Tortured History of Cancel Culture”

www.nytimes.com/2020/12/03/t-magazine/cancel-culture-history.html

“The new puritans”, in «The Atlantic», 2 settembre 2021

www.theatlantic.com/magazine/archive/2021/10/new-puritans-mob-justice-canceled/619818/

“We got here because of cowardice. We get out with courage”

www.commentary.org/articles/bari-weiss/resist-woke-revolution/

“Why we can’t stop fighting about cancel culture”

www.vox.com/culture/2019/12/30/20879720/what-is-cancel-culture-explained-history-debate

www.theatlantic.com/magazine/archive/2021/10/new-puritans-mob-justice-canceled/619818/

BETTY HART, TEDxCherryCreekWomen

SONYA RENEE TAYLOR, TEDxAuckland

Per il discorso di Barack Obama al campus: https://www.youtube.com/watch?v=qaHLd8de6nM&ab_channel=GuardianNews

4. Da Genova 2001 al Black Lives Matter

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www.twitterandteargas.org

“How Occupy Wall Street spawned a decade of protest, politics, and social media”

www.fastcompany.com/90675586/occupy-wall-street-tenth-anniversary

“Il ruolo dei social network nelle rivolte arabe”

www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0040App.pdf

“Made in Hong Kong: così si fa la protesta più tecnologica di sempre”

www.rollingstone.it/politica/made-in-hong-kong-cosi-si-fa-la-protesta-piu-tecnologica-di-sempre/473931/

“Meet the woman who coined #BlackLivesMatter”

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“Why social media makes us so angry, and what you can do about it”

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5. Da Nino Manfredi a Fedez, l’attivismo delle celeb

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“5 domande per capire se fidarti di un influencer”

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“Environmental Activism in the Digital Age, Maëlle Jacqmarcq”

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“Lo slacktivism è l’unica forma di attivismo social?”

www.siamomine.com/lo-slacktivism-e-lunica-forma-di-attivismo-social/

“Quando l’attivismo digitale diventa performativo?”

www.siamomine.com/attivismo-performativo-social-network/

6. Dalla Croce Rossa al brand activism

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“Conscious consumerism is a lie. Here’s a better way to help save the world”

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“Cos’è la solastalgia, definizione ed effetti dell’ansia da cambiamenti climatici”

www.lifegate.it/solastalgia-definizione-glenn-albrecht

“Edelman Trust Barometer 2021”

www.edelman.com/sites/g/files/aatuss191/files/2021-03/2021%20Edelman%20Trust%20Barometer.pdf

“È stato anche l’anno del ‘doomscrolling’”

www.ilpost.it/2020/12/30/doomscrolling/

“Is environmentalism just for rich people?”

www.nytimes.com/2018/12/14/opinion/sunday/yellow-vest-protests-climate.html

“Quando l’attivismo digitale diventa performativo?”

www.siamomine.com/attivismo-performativo-social-network/

“The False Feminism of ‘Fearless Girl’”

https://www.nytimes.com/2017/03/16/nyregion/fearless-girl-statue-manhattan.html

“The rise of a new smartphone giant: China’s Xiaomi”

www.nytimes.com/2014/12/15/technology/the-rise-of-a-new-smartphone-giant-chinas-xiaomi.html

“The teenagers at the end of the world”

www.nytimes.com/interactive/2020/07/21/magazine/teenage-activist-climate-change.html

Per il monologo di Bill Maher: https://www.youtube.com/watch?v=RYSLyvbR_1w&ab_channel=RealTimewithBillMaher

7. Da Einaudi ai politici “Snapchat”

“Come i social hanno cambiato volto alla politica (e ai politici)”

www.ilsole24ore.com/art/come-social-hanno-cambiato-volto-politica-e-politici-ABNXVvpB

“How Social Media Is Ruining Politics”

www.politico.com/magazine/story/2015/09/2016-election-social-media-ruining-politics-213104/

“Sei mesi di Trump al potere, ecco come si è scatenato su Twitter”

www.wired.it/attualita/politica/2017/07/21/sei-mesi-trump-twitter/