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Sociability di Francesco Oggiano
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=== Troverete parecchi <u>esempi</u>: === * la newyorchese Amy Cooper che il giorno della morte di George Floyd subisce un linciaggio mediatico per un video in cui avrebbe finto di essere minacciata da un afroamericano (e che però fu veramente minacciata da un afroamericano); * la fotografa Letizia Battaglia che si vede ritirare i suoi scatti per una campagna pubblicitaria perché, insieme alle auto Lamborghini, ritraggono delle bambine (e che però per una vita ha messo al centro della sua ricerca proprio le bambine); * la giornalista Barbara Palombelli accusata di maschilismo perché si chiede se gli uomini violenti abbiano subito «un comportamento aggressivo dall’altra parte» (e che però stava introducendo il caso giudiziario di un uomo picchiato dalla moglie); * la manager Justine Sacco licenziata e linciata in diretta mondiale per un tweet sulla presunta immunità dei bianchi all’Aids (una stupida battuta che nessuno aveva capito). Sono <u>storie semplificate</u>, utili alla nostra indignazione e al nostro posizionamento, valuta corrente dei social. È come se in nome di essi avessimo riportato in auge tre elementi storici che parevano ormai dimenticati: * il capro espiatorio (un ariete che nell’epoca antica, nel rito ebraico, veniva caricato di tutti i peccati delle comunità e cacciato nel deserto per purificare simbolicamente la stessa comunità), * il processo sommario (quello senza diritto alla difesa) e * la gogna pubblica (quella tavola di legno in cui nel Medioevo il condannato infilava la testa e le mani, per essere poi aggredito dalla folla con lanci di verdure, sterco e pietre). Secoli dopo, ci sentiamo <u>privi di dubbi</u>, sulla nostra irreprensibilità come sulla colpevolezza del linciato del giorno. Esattamente come gli ebrei col capro, attribuiamo una crescita del nostro valore sociale alla segnalazione internettiana di altrui vizi e nostre virtù. Scopriamo che la nostra identità di attivisti virtuosi è monetizzabile. E ci adeguiamo di conseguenza: offrire la nostra solidarietà identitaria, condannare qualcuno con più forza, segnalare il nostro presunto impegno, ferite e indignazioni è il modo più efficace per posizionarci nei confronti di un pubblico o di un brand. E così, alcuni sono diventati “attivisti” senza attività, “impegnati” senza impegno, “coraggiosi” senza rischio. Pronti a difendere la libertà di parola purché uguale alla nostra. Ansiosi di includere persone diverse per colore della pelle, orientamento sessuale, identità di genere e tante altre caratteristiche identitarie, ma mai diverse per pensiero. Inclusivi sì, ma con chi è già dentro. Alla rivoluzione si sono legati i brand e i politici. I primi hanno stabilito nuovi patti di relazione con consumatori coscienziosi, ma pure ridefinito la loro identità: utilizzando, più che la loro immagine per combattere battaglie, le battaglie per definire la propria immagine. Partecipando, più che a un movimento, a un momento per operare la propria comunicazione. E non esitando a contraddire quei principi così tanto sbandierati (come la libertà di parola) in nome del profitto. I secondi – almeno i più abili – si sono adeguati alla velocità del feed, adottando quella che Nicholas Carr chiama “personalità Snapchat”, un dettaglio di intimità e una provocazione alla volta. E in mezzo noi. Quelli che tra un lavoro, un amore e un drink stanno sui social. I primi collaudatori che definiranno per gli anni a venire le dinamiche all’interno delle piattaforme sociali, che queste si concretizzino in brandelli di testo o in connessioni neuronali del metaverso. I bar del futuro. Noi che ora siamo a un bivio. Personale, intimo e politico del nostro stare sui social. Da una parte possiamo limitarci all’indignazione fine a se stessa, all’autopromozione finalizzata al conto corrente, alla rabbia finalizzata al valore sociale. Possiamo uccidere ogni tipo di complessità, sminuire ogni opinione smarcata dalla maggioranza, chiedere di cancellare opere e persone, eliminare quello strato di complessità che ci rende umani e ci permette di migliorare. Per paura di finire linciati, per conformismo da pigrizia intellettuale, convenienza di guadagnare follower. Dall’altra parte, possiamo sfruttare la bellezza commovente della rete. Possiamo cambiare pezzi di mondo grazie all’ubiquità che permette di riunirci e organizzarci abbattendo quasi tutti i limiti geografici, anagrafici e d’istruzione. Possiamo avviare imprese – commerciali, giornalistiche, politiche, solidali, satiriche – senza più il sostegno di un apparato formale o di una posizione privilegiata. Possiamo abbracciare la complessità, sforzarci di capire un pensiero che ritenevano indifendibile, empatizzare con gli stronzi (empatizzare solo con quelli come noi non significa empatizzare ma fare clan), consultare più fonti, sviluppare un senso critico, onorare le nostre fortune e rendere la nostra vita social più avventurosa. Come dicono quelli fighi, abbiamo una sfida ma anche una splendida opportunità. Possiamo scegliere tra le indignazioni e le idee, tra i simboli e le azioni, tra la perfezione e l’umanità, tra la semplificazione e la complessità. Se sceglieremo le prime opzioni, finiremo per trasformare i posti nati per raccontare i nostri segreti in posti che finiscono per nascondere noi stessi; li ridurremo ad accozzaglie di visioni di vittime e oppressori, a scontri di caratteristiche identitarie e simboli; a milioni di singole illusioni (le nostre) di conformismo scambiato per bontà, di codardia spacciata per virtù. Riusciremo a creare sui social quello che nessuna dittatura, mai, è riuscita a creare: un posto in cui il soffocamento della libertà di opinione è talmente diffuso da diventare onnipresente e impalpabile, quindi maledettamente efficace. Se sceglieremo le seconde opzioni, invece, trasformeremo i social – e la percezione di noi stessi – in un accrocchio di difetti e imperfezioni: non più impeccabile, ma vivo. Rinunceremo a essere schiavi dell’indignazione e del narcisismo, coltivando al loro posto curiosità e a volte sana rabbia, quella che ci permette di scoprire e magari cambiare minuscoli pezzetti di mondo. In questo libro provo a dare qualche strumento per prepararci a questo bivio: per capire ancora meglio come funzionano i social, e soprattutto come funzioniamo noi dentro i social, i bar del futuro. Per farlo, devo partire dal principio: da una lezione alla scuola di giornalismo, e dal momento in cui ricominciammo a raccontare le storie sui giornali online usando come driver la vostra indignazione: dall’esplosione delle “fuck news”.
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