Guia Soncini - L'era dell'indignazione, lista episodi

Da Tematiche di genere.
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EPISODI IPOTETICI

Amiche fanno i figli - LA MORTE DEL CONTESTO

All’inizio del Ventunesimo secolo le mie amiche hanno iniziato a fare figli. Eravamo intorno ai trent’anni, e quindi ho potuto citare Rhett Butler più o meno fino al declino della fertilità delle donne con cui ero in confidenza. L’ho fatto con tutte, per quel che ricordo. La gravida di turno m’annunciava di essere incinta, e io rispondevo: «Sta’ allegra, potresti sempre perderlo». Se fosse stata una conversazione pubblica, e se fosse avvenuta quindici giorni e non quindici anni fa – insomma: se fosse un dialogo del presente – nel casino che scoppierebbe ci sarebbe sicuramente qualcuno pronto a citare il black humor e qualcun altro (con molte assenze nelle ore di filosofia) che scomoderebbe il cinismo [...]


L’intervista a Bret Easton Ellis - IL SECOLO FRAGILE

Un paio d’anni fa sono andata a intervistare Bret Easton Ellis, il cui Bianco girava intorno a questo tema – il secolo fragile, in cui troviamo intollerabile che qualcuno la veda diversamente da noi, ci sentiamo minacciati appena le idee del nostro interlocutore non sono quelle che abbiamo stabilito essere buone e giuste, viviamo in una bolla in cui non vogliamo renderci conto di niente che ci disturbi – e mi aveva fatto pensare varie volte «Cosa lo scrivo a fare L’era della suscettibilità, ha già detto tutto lui». Per esempio in questo passaggio qui:

L’onnipresente epidemia di autovittimizzazione – in cui definisci te stesso essenzialmente per mezzo di una cosa negativa, un trauma che hai subito in passato e a cui hai permesso di definirti – è a tutti gli effetti una malattia [...]. Il fatto che non si possa sentire una battuta o vedere una certa immagine (si tratti di un quadro o anche solo di un tweet) e che ogni cosa possa essere connotata come razzista o sessista (legittimamente o no) e sia dunque considerata nociva e intollerabile – e che dunque nessun altro debba avere modo di ascoltarla o vederla o tollerarla – è un nuovo tipo dimania, una psicosi che la nostra cultura ha incoraggiato.


La pillola anticoncezionale - PENSA OGGI

È il 1991. Ho fatto l’esame di maturità e sono in viaggio con tre compagne di classe. Siamo tutte più o meno diciannovenni, e il giro nei Caraibi che abbiamo organizzato prevede una prima tappa a Isla Margarita: il padre divorziato di una delle quattro vive lì. Dovremmo restare qualche giorno, ma c’è un imprevisto. La seconda mattina il padre convoca la figlia e le fa vedere indignato una pillola. Una pillola anticoncezionale. L’ha trovata per terra. Non è preoccupato perché quindi una di noi ha saltato la pillola senza avvedersene e urge rimediare rapidamente: è preoccupato per la morale delle sgualdrine cui s’accompagna sua figlia – una figlia che viveva in Italia mentre lui risiedeva in Venezuela, e sul cui codice di condotta immagino avesse quindi una salda presa, ma ora non divaghiamo. La compagna di classe torna mestamente da noi e ci dice che dobbiamo fare i bagagli prima del previsto: il padre, invece d’apprezzare la generosità con cui avevamo fatto una deviazione acciocché lui potesse vedere la figlia, ci ha messe al bando. Quelle troie delle tue amiche qui non ce le voglio.


Consigli su Reddit - LA PIGRIZIA DELL’INDIGNAZIONE

Idea per un racconto. Ambientare la lettera di Evelyn Waugh alla moglie nel 2020, e fare di lei una che va su Reddit, o analogo posto on line in cui si chiedano consigli sulla propria vita, a chiedere se sia saggio impermalirsi perché il marito le ha scritto che le sue lettere non sono all’altezza. Seguire il crescendo in cui le utenti la convincono che il marito sia un mostro e lei un genio della prosa vessato da un uomo geloso delle sue doti (frase-tipo della commentatrice alla derelitta: «Tu sei fortissima, ce la puoi fare, siamo donne, possiamo tutto»), e poi un redattore televisivo la invita a partecipare a un programma in cui ci si lamenta dei mariti che non ci comprendono, non ci valorizzano, non ci meritano. Infine ritrovarla, divorziata e lieta della propria prosa non avvincente, che vende barrette dietetiche su Instagram.


L’episodio di Amber Ruffin - LA PIGRIZIA DELL’INDIGNAZIONE

Amber Ruffin è un’autrice comica nera. Nel 2020 le hanno dato da condurre un programma. Uno dei pezzetti che più si sono visti in giro, in un’epoca in cui il successo della tv si misura da quanti suoi pezzetti ne vengano diffusi in giro per social (quel che i giornalisti sciatti chiamano «diventare virale»), è una tirata in cui lamenta il razzismo dello sbagliare la pronuncia del nome di Kamala Harris. A sostegno della sua tesi, Ruffin elenca una serie di nomi di bianchi che nessuno sbaglia mai. Tra di essi ci sono l’attore Timothée Chalamet e la modella Emily Ratajkowski. Mi piacerebbe sapere chi frequenta Ruffin, perché io ho molti amici il cui massimo oggetto del desiderio è la Ratajkowski, e molte amiche che fanno un’eccezione al loro abituale non amare i ragazzini e bramano Chalamet, e nessuno di loro è in grado di compitarne o pronunciarne i cognomi. Io stessa li ho copiati da Google per scriverli qui, e se invece che un libro questa fosse una conversazione avrei fatto ciò che fanno tutti quelli che conosco quando devono citare quei due: chiamarli Ratacosa e Chalacoso.


Solo alle donne - L’AMERICANO CHE SAPEVA LE DONNE

«Solo alle donne» è un argomento così ricattatorio che neanche quand’è clamorosamente smentito dalla realtà osiamo contestarlo. Quando Emma Dante porta a Venezia un film tutto di femmine, un intervistatore domanda «Le figlie Macaluso sono tutte femmine. C’è un motivo?», venendo fulminato con sottintese accuse di maschilismo: «Se avessi fatto un film di soli uomini me l’avrebbe chiesto?». Il tapino non osa far presente che, se nel 2020 qualcuno avesse osato fare un film di tutti maschi, fosse pure stato un film ambientato nella trincea della prima guerra mondiale e la prevalenza di genere fosse quindi stata storicamente non aggirabile, le accuse di tutti maschi sarebbero volate; se poi quel film fosse stato diretto da una donna, ella sarebbe stata accusata d’essere ancella del patriarcato. Tutte femmine invece va bene: è perché è una rivalsa rispetto al sistema patriarcale? Ma, se lo è, non è forse una notizia, e quindi una domanda che valga la pena fare in un’intervista senza venire liquidati come dei fanatici arretrati?


Michela Murgia - LA RICERCA SPASMODICA DEL CRETINO

A un certo punto della quarantena da virus della primavera 2020, Michela Murgia è ospite d’un programma televisivo. Dice che è arrivata a Milano in un treno vuoto, per strada non c’era nessuno, e insomma se non fosse per i morti lei ci metterebbe la firma, per avere città sempre così. Ovviamente è un’iperbole (una categoria che l’internet dovrebbe conoscere, essendo il luogo in cui ogni cosa che ci sembri vagamente riuscita è «genio» e «capolavoro», con relativi puntesclamativi). Altrettanto ovviamente, l’internet la fa nera. Plausibilmente, non perché tutti quelli a casa credano davvero che la scrittrice auspichi uno sterminio di massa; solo perché quelli che si prendono il disturbo di chiedere la sua cancellazione da ogni rilevanza pubblica hanno avuto una brutta giornata, o temono che una loro uscita infelice venga messa in evidenza e quindi smaniano per lasciare a qualcun altro il posto del linciato del giorno, o anche solo s’annoiano.


Skioffi - L’INDIGNAZIONE DEPERIBILE

Nell’autunno 2019 ci siamo offese (in quanto donne, in quanto passanti) con tal Skioffi, chiunque egli sia (un concorrente di Amici), perché in una canzone il suo io narrante tornava a casa e si scopriva cornuto ed esprimeva dettagliatamente il proprio desiderio d’ammazzare l’amata. Processato in uno studio televisivo, il ragazzo si è sentito dire da una criminologa «Spero che sia fiction», e non ha avuto la prontezza di rispondere «No, ho ammazzato davvero la mia morosa e una canzone mi sembrava un buon posto per confessarlo»; ma d’altra parte neanche Shakespeare avrebbe avuto la risposta pronta, se avessero analizzato la sua fedina morale all’uscita dell’Otello.


La puntata di Grey’s Anatomy - NESSUNA SUSCETTIBILITÀ È STATA MALTRATTA

Nel 2020 quella puntata di Grey’s Anatomy non verrebbe mai girata. Il discorso che fa Chimamanda Ngozi Adichie parlando delle reazioni esasperate a tutto ciò che disapproviamo (sì, insomma: di quella che in neolingua si chiama cancel culture), la preoccupazione per l’autocensura dovuta al clima d’intimidazione intellettuale, è tanto più valido quando ci sono di mezzo gli animali. Gli attivisti d’una volta, quelli che ti gettavano addosso vernici indelebili se giravi in pelliccia, erano tolleranti, in confronto all’isteria che oggi caratterizza gli amanti degli animali. Adesso, a parlare disinvoltamente di pellicce è rimasta solo la signora Deneuve, dio o chi per lui ce la conservi.


Il post su Instagram - NESSUNA SUSCETTIBILITÀ È STATA MALTRATTA

L’unica volta che Instagram m’ha risolutamente comunicato d’aver rimosso un mio post è stato quando avevo pubblicato la foto d’un cane dentro a un bar. Precisando, nella didascalia, che mi sembrava assai poco igienico che in Italia si potesse entrare con animali in posti in cui si vende cibo, e che il cane si spulciasse a dieci centimetri dalle brioche che avrei di lì a poco acquistato. La foto non violava nessuna delle linee guida di Instagram (che sono perlopiù costituite dal divieto di ritrarre capezzoli e di pubblicizzare la vendita di armi), ma i volenterosi carnefici del senso del ridicolo hanno segnalato l’offesa alla loro suscettibilità di padroni di cani un numero sufficiente di volte da convincere l’algoritmo.


La finale dei Mondiali - NON C’È LA FILA IN QUANTO

Ho capito che c’era qualcosa che non andava in me la sera della finale dei mondiali del 2006. Ero in una casa d’intellettuali d’un certo successo, mi stavo annoiando moltissimo (era la seconda partita della mia vita, ed ero incredula che risultasse inconcepibile fare conversazione durante: volete dirmi che vi serve concentrazione per seguire i calci al pallone?), quando un giocatore francese diede una testata a un giocatore italiano. La prima televisione».

Voglio dire: non ci voleva McLuhan, per capire che l’avrebbero replicato per anni. Lo sdegno pre-esisteva rispetto alla mia frase: appena l’italiano barcollò, i presenti, probabilmente provando l’editoriale che avrebbero scritto un paio d’ore dopo, s’affrettarono a dire a voce alta cose come «violenza inaccettabile». Poi, persi due secondi a sgridare la mia ammirazione, passarono alle appartenenze: la violenza è inaccettabile in generale, certo, ma dico, quello è uno dei nostri, e l’aggressore è uno dei loro. C’era una bambina di sei o sette anni, e anche lei annuiva contrita.

Quindi il patriottismo, quel valore che a me pareva più scemo della verginità, lo capiva anche un bambino. Poco dopo si aggiunse un nuovo strato al sentimento popolare, e gli intellettuali si divisero in due: quelli juventini (il tizio che aveva dato la testata era stato della Juve) erano lievemente meno indignati, quelli interisti (il tizio che aveva preso la testata era dell’Inter) lo erano un po’ di più.


L’estate del 1987

Ho capito che c’era qualcosa che non andava in me l’estate del 1987. Mia madre mi telefonò da un albergo di Rimini dicendo che in piscina c’erano gli Spandau Ballet: volevo un autografo? Certo che sì, risposi smaniosa di fare invidia alle amiche. Peraltro senza farmi le domande ovvie (in che lingua gliel’avrebbe chiesto, mia madre che in inglese non sapeva chiedere neanche l’ora? Quanto sarebbero state contente, cinque popstar men che trentenni, che una signora di mezz’età con le tette di fuori – mia madre aveva questa per niente imbarazzante abitudine, allorché a bordo piscina – andasse a disturbare la loro tintarella in un albergo di lusso per dire che la bambina era tanto fan?).

Poi mia madre tornò, con una foto del gruppo e gli autografi di tutti e cinque (probabilmente una guardia del corpo le aveva impedito di avvicinarsi e, capito a gesti cosa volesse, le aveva dato una foto già pronta tirata fuori da apposito bagaglio a mano).

Poi venne settembre, e io andai a scuola tutta garrula, e ne tornai tutta mogia. La mia compagna di banco mi aveva guardato con disprezzo e mi aveva detto «Noi siamo per i Duran». Noi chi? E in nome di cosa? Ho forse firmato un giuramento di fedeltà? Bisogna essere monogame delle canzonette? Ci avrei messo molti anni a capire che ero quella che va al derby dicendo «Non sono tifosa, mi piace il bel gioco»: una pazza. Da che esisteva il pop, le ragazze avevano scelto se stare coi Beatles o con gli Stones, con gli Spandau o coi Duran. Erano fedeltà impegnative: Gianni Morandi racconta che la madre al Cantagiro non tifava per lui perché era da prima fan di Claudio Villa, mica poteva cambiare appartenenza.


L’autunno del 2019

Ho capito che c’era qualcosa che non andava in me nell’autunno 2019, dopo la conferenza d’una scrittrice americana a Milano. C’era la fila per uscire dalla sala e, aspettando che la gente defluisse, mi sono trovata bloccata davanti a un uomo con in braccio un fagottino vestito di rosa. Con quell’impeto a dire qualcosa pur non avendo niente da dire che coglie gli esseri umani in ascensori o altri spazi angusti con estranei, ho detto a quella che credevo essere una bambina «Ma sei piccolissima tu». Il tizio mi ha corretto in tono neutro: «Piccolissimo». Mi sono scusata: «Sa, il rosa». Mi ha guardato con la soddisfazione di chi ti sta educando a evolverti:

«Certo: gender bias». Ho capito che l’America era un po’ meno lontana, un po’ meno dall’altra parte della luna, se anche a Milano vestivamo neonati di rosa e poi ci lamentavamo del pregiudizio di genere, ma soprattutto mi sono chiesta quale fosse lo scopo ultimo del gioco: cosa vesti a fare di rosa un neonato – troppo piccolo perché il suo aspetto dia qualsivoglia indizio sul suo genere sessuale – se non per far sbagliare identificazione all’avventore in un posto in cui si parla una lingua coi generi ed è quindi impossibile dire tre parole su qualcuno senza declinare un maschile o un femminile?

Due sono i colori che dicono un sesso, perché diavolo non vesti un bambino di giallo canarino o di verde pistacchio o di rosso carminio, invece che usare l’unico colore che dà l’indicazione sbagliata del suo genere sessuale, per poi riprendere chi ci casca? Perché sei un uomo libero e la tua libertà è usare il rosa sul figlio maschio, certo: queste sono le cause per cui vale la pena immolarsi. Per rompere i coglioni, ecco perché. Siamo dispettosi, prima ancora che suscettibili. Ci piace mettere piccole trappole, e vedere (non troppo di nascosto) l’effetto che fa.


Il caso di Edward Enninful

Edward Enninful ha quarantotto anni, è nero, è gay, è nato in Ghana. A diciott’anni era già uno dei capi nel competitivo giro delle riviste di moda londinesi. A quarantacinque diventa direttore dell’edizione inglese di Vogue. A luglio del 2020, un poverocristo della sorveglianza del palazzo londinese di Condé Nast (l’editore di Vogue), uno cui la vita non ha concesso i mezzi e il privilegio di riconoscere gli abiti costosi e i ruoli che se ne possono intuire, lo scambia per un fattorino, e gli dice di usare l’ascensore di servizio.

Scandalo, discriminazione, indignazione.

Poiché, come dicevo qualche pagina fa, nell’identitarismo postmoderno tutto conta tranne la classe sociale, in quanto nero Enninful è «vittima di profilazione razziale», e l’orrido vigilante razzista va licenziato: tutti gli articoli di quei giorni concordano, e nessuno nota che, se si guarda alle gerarchie con più realismo e meno ubriachezza di postmodernismo, Enninful è un uomo di potere e quell’altro è uno il cui stipendio sì e no basterà a fargli pagare un affitto londinese.

Poiché l’inesistenza delle classi sociali è una delle più ridicole finzioni di questo tempo, sotto al post con cui Enninful racconta questa gravissima discriminazione, su Instagram, ci sono commenti indignati di tutta la meglio miliardaritudine del mondo della moda. Se sei un uomo di potere nel mondo della moda, è fisiologico che frequenterai modelle, stilisti, celebrità multimilionarie assortite assai più di quanto t’accada di frequentare tassisti e pizzaioli. Ma ciò non farà di te un soggetto forte, per carità: in-quanto-milionario vale meno, sulla scala delle suscettibilità, di in-quanto-nero e in- quanto-gay. Mentre licenziano il vigilante distratto, la vittima è quello che ha passato una vita dirigendo giornali.

Sei mesi dopo, Enninful viene nominato direttore editoriale di tutti i Vogue europei (in quanto nero? In quanto gay? In quanto traumatizzato dalla profilazione? L’ottimista in me vuole credere: in quanto capace). Del vigilante non si sono più avute notizie; difficile abbia trovato un nuovo lavoro, in quanto ormai ufficialmente razzista: speriamo abbia almeno ottenuto un sussidio di disoccupazione.


Tu non sei democraticaaaa - OGGETTO E BERSAGLIO: TROVA LE (PICCOLE) DIFFERENZE

Per aver scritto, quando l’Inghilterra votò la Brexit, che non capivo come mai non prendessero esempio da me, che non lasciavo decidere alla maggioranza neanche dove si andasse a cena. Tu vuoi cancellare il voto, mi accusò con grandissimo senso del tono Twitter, tu non sei democraticaaaa, vibrò sdegnata come un solo Aldo Fabrizi che tenta di colpevolizzare Vittorio Gassman in C’eravamo tanto amati. È un caso che ricordo con affetto perché è l’unico in cui abbia visto l’internet usare democratico per quel che significa – che il mio voto vale quanto il tuo – e non in un immaginifico traslato sintetizzabile in «se non passi il pomeriggio a rispondere alle stronzate di Pirulino54 che ha deciso di citofonarti le sue opinioni su un social, allora non sei democratica».


Il commento su una foto - NON C’È NIENTE DA RIDERE

I custodi dell’infanzia violata, offesi con una scrittrice che, commentando una foto d’una cinquenne facente parte della famiglia reale inglese, aveva ironizzato ella stesse seduta «da gattamorta» (al trentesimo «come ti viene in mente di sessualizzare una bambina di cinque anni» mi risuonava in testa i bambini non si toccanoooo; quando qualcuno ha spiegato che “gattamorta” non ha connotazioni sessuali, e gli offesi hanno replicato che, anche se non vuol dire quello da dizionario, loro lo usano in quel senso e quindi ormai è così, ho pensato che Borges sarebbe andato in brodo di giuggiole, a vedere cos’era diventata una lingua teoricamente condivisa).


I parenti dei malati di cancro - NON C’È NIENTE DA RIDERE

I parenti dei malati di cancro, offesi con chiunque usi l’espressione «lottare contro il cancro». Che è un’espressione bruttina, ne convengo, non foss’altro perché la lotta prevede armi più o meno pari, ma se uno la vuole usare per il proprio decorso clinico, con tutto quel che ha da pensare mentre ha il cancro, vorremo lasciargli almeno questa libertà? E invece quando il più famoso conduttore americano di quiz, Alex Trebek, ha annunciato d’avere il cancro al pancreas, e lo ha comunicato dicendo che avrebbe lottato e l’avrebbe sconfitto, si è trovato tra le altre incombenze di giornata il dover rendere conto all’invasata di turno che mia madre è morta di cancro non starai mica dicendo che non ha lottato abbastanza per vivereeee.

La sinistra più pura - NON C’È NIENTE DA RIDERE

La sinistra più pura, offesa con Zalone sempre per Tolo Tolo, per tanti di quei dettagli che non saprei elencarli tutti, sostanzialmente riassumibili in: La gente muore e tu fai il film comicoooo. Sarebbe facile liquidarli come cretinetti dell’internet che pensano – come l’assai irriso personaggio di Alan Alda in Crimini e misfatti – che la comicità sia «tragedia+tempo», e non sanno che Chaplin fece Il grande dittatore in piena gloria di Hitler, mica aspettò che fosse passata la nottata. Il guaio è che anche i migliori hanno il loro Tu mia mamma la lasci stare, capitoooo, e quindi a scrivere a proposito di La grande guerra (il film di Monicelli sulla prima guerra mondiale) che «Caporetto non me la dovete toccare» non è un passante dell’internet ma Carlo Emilio Gadda – che, come un isterico con wifi del secolo successivo, strabilia anche perché «il pubblico ride, non capisco cosa ci sia da ridere».

I generi dell’italiano - CHI SI OFFENDE È PERDUTO

L’italiano è una lingua coi generi, e tentare di renderla neutra produce comicità involontarie. All’inizio i volenterosi carnefici del senso del ridicolo mettevano gli asterischi, che però presentano due problemi. Il primo è che i generi, oltre ai sostantivi, riguardano tutto il resto, e finisci per dimenticarti sempre qualcosa.

Car* amic* vicin* e lontan*, siete invitate – eccolo là, t’è scappato il femminile. Il secondo è: quando scrivi, vabbè, ma quando parli, come diavolo li pronunci, gli asterischi? La seconda ondata d’inclusività pare quindi aver optato per la u come sostitutiva di qualunque lettera finale. Col risultato che volevano sembrare moderni e sembrano solo di Nuoro (se non ricevo entro una settimana almeno un messaggio indignato «Nuoro è bellissima, cos’hai contro Nuoro, come osi mancare di rispetto ai sardi», vuol dire che questa pagina non l’ha letta nessuno).


Il sensitive reading - LA PREMESSITE: SE LA CONOSCI NON TI UCCIDE

La forma più degenerata di premessite si chiama sensitivity reading. È la pratica per la quale, prima di decidere se pubblicare un libro, nelle case editrici inglesi e americane il testo viene sottoposto ad appositi lettori incaricati di vagliare l’impatto che può avere su alcune suscettibilità. Questo no perché offende i vegani, questo no perché offende i tifosi della tal squadra, questo no perché offende i giocatori di burraco. Non sarò certo io a dire che questo criterio impedisce la pubblicazione dei testi più interessanti (non mi viene in mente neanche un libro che valga la pena leggere e che non dispiaccia a nessuno: presto saremo pieni di libri innocui, immagino sia auspicabile in cambio d’una vita senza scossoni; senza gli scossoni che vengano dalla letteratura, non potendoci i sensitivity reader difendere dai traumi della vita, quella screanzata).

L’anno scorso, dopo alcune polemiche per un editoriale d’un senatore repubblicano, i giornalisti del New York Times chiesero che il giornale si dotasse di sensitivity reader per poter vagliare gli articoli e controllare preventivamente che non spiacessero a qualcuno. Stranamente nessuno ha proposto di cambiare lo slogan del giornale da «All the news that fit to print», tutte le notizie che vale la pena pubblicare, a «Tutte le notizie che non danno fastidio a nessuno dei redattori».

Raccontano gli editori di quei paesi avanzati che il sensitivity reading non ha il solo intento di ostacolare la pubblicazione dei libri offensivi, ma anche quello di far coprire ai propri testi tutto l’arco sociale: se hai già in catalogo un romanzo su una bianca borghese, chiederai all’autore d’un secondo romanzo con protagonista simile di trasformare la sua in, che so, sottoproletaria indiana. Dev’essere questo che intende Fran Lebowitz quando dice che c’è troppa democrazia nella cultura e non abbastanza nella società. Invece di preoccuparci di far prendere alla sottoproletaria indiana l’ascensore sociale, la mettiamo in un romanzo. Ora sì che i suoi problemi sono risolti.


La prova dell’11 settembre - COM’È COMINCIATA: DIANA, LA DEA DELLA VULNERABILITÀ

Avevo vent’anni quando lei e Carlo divorziarono, ventiquattro quando Diana Spencer morì: vivevo a Roma da sei anni, sei anni di tabloid inglesi comprati all’edicola di piazza Colonna. Sei anni di intercettazioni con amanti e altre amenità: Diana era l’unico personaggio della mia infanzia che avessi portato nella mia giovinezza (avevo mollato sia Julio Iglesias sia Miguel Bosé).

Evidentemente non ero l’unica: dal punto di vista dell’informazione, la morte di Diana Spencer fu una prova generale dell’11 settembre. Come sarebbe poi accaduto per l’11 settembre, non si scrisse d’altro per mesi; diversamente dall’11 settembre, quando morì erano già anni che non si scriveva d’altro che di lei (la quantità di foto pubbliche della sua ultima estate rende difficile credere che fosse il 1997, e che Instagram non sarebbe esistito per altri tredici anni).

Il fatto è che Diana non era uscita dai rotocalchi e non aveva invaso l’informazione cosiddetta seria in quanto principessa: l’aveva fatto in quanto vittima. Aveva mandato in frantumi, con la sola forza della voce sussurrata e dello sguardo da cerbiatto cui un cacciatore abbia ammazzato la mamma, il motto della casa reale, «Never complain, never explain, never say “I’m sorry”». Diana si lamentava tantissimo, faceva arrivare alla stampa (anche prima di darle esplicitamente lei) tantissime spiegazioni, e ambiva chiaramente a un universo in cui tutti le dicessero «Mi dispiace». In un rifacimento di Love Story, Diana pensava che tutti dovessero scusarsi con lei (non essendo in grado di amarla come e quanto meritava).

La ricerca su Diana - COM’È COMINCIATA: DIANA, LA DEA DELLA VULNERABILITÀ

Nell’autunno 2020, ventitré anni dopo la sua morte, le università di Tel Aviv e della Pennsylvania pubblicheranno una ricerca congiunta. In essa codificheranno quel carattere ormai universale di cui Diana era stata avanguardia: TIV, Tendenza alla Vittimizzazione Interpersonale. Ma noialtre italiane non avevamo dovuto aspettare ventitré anni, per il riconoscimento dell’archetipo. Erano bastati due giorni. Due giorni dopo la morte di Diana, l’Unitàl’Unità, non Gente – aveva titolato Scusaci, principessa. Ecco: le stavamo finalmente dicendo che ci dispiaceva, che ci dispiaceva di non averla amata abbastanza, che ci dispiaceva d’averla fatta lamentare e spiegare. Per farci perdonare, ci saremmo vittimizzati anche noi, ora che sapevamo come fare. Eravamo nella sindrome con ventitré anni d’anticipo, pazienti zero che aspettano per decenni che la psichiatria si accorga di loro.


EPISODI REALI

Il post su Facebook - LA MORTE DEL CONTESTO

[...] Quel giorno lì non me ne sono ricordata, della regola del mancato contesto, e quindi ho messo su Facebook il pezzettino di film, con sotto scritto «La verità è che invecchiare fa schifo». All’altezza di Sapore di mare, Virna Lisi aveva quarantasette anni, l’età che ho io mentre scrivo queste righe. La battuta funziona anche perché non è detta da un catorcio, ma da una d’indiscutibile splendore (la me quarantasettenne darebbe tutti gli organi interni che ha doppi, per metà di quella saputa bionditudine). Insomma, non ho ritenuto necessario specificare alcunché. Per chi, come me, si bulla di saper provocare indignazioni con la precisione con cui Pavlov agitava il campanello, lo sdegno imprevisto è sempre un brivido. Quella sera iniziarono ad arrivare notifiche offese che sottolineavano la mia ineleganza, il mio non avere rispetto dei morti, e pure la mia inadeguatezza estetica (che è una cosa che sull’internet succede anche se parli di fame nel mondo: almeno quella volta la notazione era in tema). Tutto perché – l’avrete già capito – nessuno ricordava il pezzettino di film, nessuno ci aveva cliccato capendo che la battuta era della Lisi, e tutti pensavano io stessi dicendo che la Lisi in quel brandello di film era da buttare nell’umido (incredibilmente, nessuno di coloro che ritenevano d’insolentirmi mi chiedeva se fossi per caso cieca).


Libri banditi - IL SECOLO FRAGILE

[...] C’è il posto in cui è bandito Il buio oltre la siepe (che, quanto a valore di classico per gli americani, è un po’ come se da noi vietassero I promessi sposi), perché gli studenti non devono «sentirsi umiliati dagli epiteti razziali» (ripensandoci, evitare alle studentesse di sentirsi umiliate dalla scemenza di Lucia Mondella non è affatto una brutta idea); quello che toglie dal programma Uomini e topi perché contiene troppe parolacce; Il giovane Holden è un eterno ritorno del divieto da tantissimo tempo, nel 1960 un professore venne licenziato con l’accusa d’aver turbato un sedicenne assegnandogliene la lettura; La fattoria degli animali venne vietato in una scuola media e ci volle una petizione dei genitori per reintrodurlo tra le letture (Orwell andrebbe vietato per manifesta inutilità: sono decenni che leggiamo le sue esattissime previsioni su che diavolo di fine avremmo fatto come società, e non ci è servito a niente). Ma i miei preferiti sono gli studenti di Yale, una delle università più prestigiose del mondo, che nel 2016 chiedono che dai programmi di letteratura venga tolto Shakespeare, la lettura del quale «crea una cultura ostile agli studenti di colore» (in effetti quel Moro di Venezia era un vero stronzo), proponendo di inserire invece autori donne e gay, due quote presentissime nel Seicento inglese, e di «decolonizzare il programma di studi».


Le recensioni su Repubblica - PENSA OGGI

È il 1992. A ottobre partono i programmi televisivi della nuova stagione e, come da tradizione delle rubriche di critica, vengono recensite le prime puntate. Su Repubblica il titolare della rubrica è Beniamino Placido, il più raffinato intellettuale italiano che si sia mai esercitato nella critica televisiva. Così comincia il suo resoconto di due esordi domenicali: «Abbiamo seguito come abbiamo potuto Domenica in di Cutugno-Parietti su Raiuno, e Italiani di Barbato- Palombelli su Raitre. [...] Cosa abbiamo notato? Abbiamo notato – mica è colpa nostra, la televisione è fatta di immagini – che Barbara Palombelli (Raitre) aveva una minigonna più corta di quella di Alba Parietti».


Canzonissima

È il 1972. A Canzonissima, programma del sabato sera in quell’edizione condotto da Pippo Baudo e Loretta Goggi, Vittorio Gassman, ospite fisso, in una puntata – dopo che la sua voce fuori campo ha annunciato «voglio entrare in maniera semplice, tranquilla, modesta» – entra in scena assiso su una biga, tirata non da cavalli ma da signore impellicciate che il condottiero frusta per farle marciare. Baudo domanda chi siano, Gassman risponde: «La baronessa Taranti Maielli, la presidentessa delle opere pie dell’alto Lazio, e altre ammiratrici che si sono prestate volontariamente per tirare la mia biga. Brave bambine, vi siete fatte ammirare, ora in scuderia», poi quelle escono mute e lui procede a fare il suo numero.


Tropic Thunder

È il 2008. Ben Stiller gira e interpreta Tropic Thunder, un film satirico su tre attori imbecilli che girano un film di guerra. Il suo personaggio è reduce dall’insuccesso d’un film in cui interpretava quello che in un libro per gente perbene chiamerò un disabile. Il personaggio di Robert Downey jr. (che incidentalmente ha la faccia tinta di nero per fare l’afroamericano) gliene spiega con una certa lucidità i mancati incassi: «Lo sanno tutti che non devi farlo davvero ritardato. Facci caso. Dustin Hoffman, Rain Man: sembra ritardato, si comporta da ritardato, non è ritardato. Conta gli stuzzicadenti, bara a carte. Autistico, mica ritardato. Tom Hanks, Forrest Gump. Lento, sì. Forse pure ritardato. Storpio. Ma faceva perdere la testa a Nixon e vinceva una gara di ping pong. Mica era un ritardato: era un cazzo di eroe di guerra. Conosci qualche eroe di guerra ritardato? Tu l’hai fatto davvero ritardato, mai farli davvero ritardati. Non ti fidi? Chiedi a Sean Penn, 2001, I am Sam, te lo ricordi? Davvero ritardato, davvero neanche un Oscar».


Delirious

È il 1983. Eddie Murphy è un comico nero ventiduenne e ha il livello di fama d’una rockstar. La HBO decide di registrare e mandare in onda lo spettacolo che sta portando in giro, Delirious. La prima frase del monologo è: «Qui ci sono delle regole, la prima è: i froci non sono autorizzati a leccarmi il culo mentre sto sul palco». Segue una spiegazione del suo muoversi sul palco per sfuggire a eventuali agguati degli omosessuali in platea (è una specie di versione «orgoglio etero» del «se ti muovi rapido, non vieni nelle foto» che Salvatores dieci anni dopo avrebbe fatto dire a un personaggio in Sud). È uno dei rarissimi casi in cui la parola «omofobia», in genere impropriamente usata per chi aggredisce o ostracizza i gay (e quindi non ne ha paura: è semplicemente stronzo), ha un senso: Murphy dice proprio d’avere paura dei gay, «mi terrorizzano, ho gli incubi». Dopo una divagazione sulla paura di «andare a Hollywood e scoprire che Mr T è un frocio» (Mr T era il personaggio nero di A-Team, telefilm di gran successo di quegli anni), si passa alle donne cui piace avere amici gay, e infine all’AIDS. Murphy – nel 1983, quando non c’era una cura per tenere sotto controllo l’HIV e la gente ne moriva a frotte – ha paura che glielo attacchi qualche ragazza che l’ha preso in discoteca dall’amico gay. E a quel punto non solo muori, ma penseranno anche tutti che sei omosessuale.

È il 2008. Delirious esce in dvd. Contiene un’intervista in cui l’Eddie Murphy che va per i cinquanta commenta il sé stesso poco più che ventenne. L’intervistatore gli domanda se all’epoca ci fossero state polemiche. «Certo che c’erano i picchetti. Erano gli anni in cui non si parlava di niente, e io parlavo di tutto. Si parlava di gay, e fuori c’erano i gay che: No, no, no». Fa anche l’imitazione con la voce da Vizietto.


Iva Zanicchi

È il 2009. Iva Zanicchi porta a Sanremo una canzone intitolata Ti voglio senza amore. La prima sera del festival Roberto Benigni dedica tre minuti del proprio monologo al divertito stupore nel sentire una signora che canta «“fammi quello che ti pare però non finire presto”: è come dire “trombami e dura parecchio” [...] con tutto il rispetto, è un bel pezzo di donna, ma è un donnone, c’è da fare». La canzone non supera il primo turno di gara, la Zanicchi dà la colpa a Benigni, la polemica si esaurisce in dieci minuti.


The Guardian

È il 2004. Il Guardian, quotidiano inglese che già mostra le caratteristiche che lo porteranno poi a essere il bollettino ufficiale dell’era della suscettibilità, intervista Bill Murray, a proposito del ruolo che interpreta in un film intitolato Lost in Translation: un attore americano che trascorre alcuni alienati giorni a Tokyo. In particolare gli chiedono se il film non sia pieno di stereotipi razziali e offensivo per gli orientali, una domanda alla quale qualunque persona sensata. Oggi sa di dover rispondere un contrito «sì». Nel 2004 Murray risponde: «So che i giapponesi ridono degli americanismi più di quanto noi ridiamo dei giapponesismi. Adorano osservare la stupidità del forestiero a Tokyo. Non sono per niente offesi. Lo sanno che i loro inchini sono buffi e che la loro lingua è impenetrabile per il resto del mondo».


Franca Valeri

È il 2019. Franca Valeri pubblica un libro intitolato Il secolo della noia. A un certo punto, nel fare paragoni tra ora e allora, scrive: «Quando la politica era una specie di tabù, non troppo nominato, quando gli uomini chiudevano le porte, quando si poteva entrare con un ristoro, magari dei cioccolatini o uno spumante e si poteva dire: “Basta parlare di politica!”, e gli uomini tacevano». Aspetto l’insurrezione delle cancellettiste – come osa rimpiangere un tempo in cui la politica era privilegio degli uomini, in cui le donne erano quelle che portavano da mangiare –, ma non arriva. Sarà perché hanno letto quell’intervista di trentacinque anni prima in cui l’intervistatrice rinfacciava a Roth di dividere le donne in psicopatiche che infelicitano la vita all’uomo e accudenti che gli preparano da mangiare, e Roth le ricordava che saper fare da mangiare era una dote equamente divisa tra le sane di mente e le stronze? Figuriamoci. Più probabile sia perché ciò che non può diventare istantanea da social network più difficilmente crea scandalo, certo d’un libro si potrebbe fotografare la pagina e twittarla con indignazione, ma toccherebbe comprarlo e leggerlo, e figuriamoci. O perché in quel 2019 Franca Valeri compiva novantanove anni, e quindi parlava a nome del tempo che era stato: non era considerata in grado di comprendere l’evoluzione dei tempi e l’emancipazione e la fortuna di vivere adesso, questo tempo sbagliato in cui tocca discutere di correnti di partito tutti i giorni persino se hai una vagina. Non sapeva quel che si era persa, povera Franca, solo per questo l’avevano lasciata in pace. Pensa se fosse stata considerata una di oggi.


L’episodio del MeToo - IL FETICISMO DELLA FRAGILITÀ

C’è un comico che non si può più citare giacché aveva l’abitudine di chiedere a signorine del suo ambiente lavorativo se desse fastidio il suo eventuale masturbarsi davanti a loro, e ricevuto l’assenso procedeva. All’inizio del MeToo, alcune delle signorine raccontarono al New York Times che il signore (si chiama Louis CK, nominiamo l’innominabile) aveva commesso una violenza, giacché esse avevano sì detto di sì, ma solo perché, egemonizzate dal suo maggior successo professionale, ritenevano insubordinazione dire di no.

Tutte le donne che hanno parlato di quella vicenda facevano (fanno) le comiche, e più o meno tutte hanno argomentato che il vero scandalo fosse che le loro carriere non erano decollate, per colpa del bruto che le aveva traumatizzate prima e ostacolate poi.

Pochi mesi dopo, a capodanno del 2018, su Netflix arriva il nuovo monologo di Dave Chappelle. Dave Chappelle è un comico nero d’una bravura sconcertante, ed è stato – parte della bravura – il più rapido a elaborare quel momento di moralizzazione e a trovare i punti giusti rispetto ai quali fare il suo lavoro, cioè prendere quel momento per il culo.

Quel monologo – The Bird Revelation – si apriva con una panoramica del tipo «e poi non rimase nessuno»: erano i mesi in cui ogni giorno veniva fuori che qualche colosso della cultura americana si era comportato impropriamente con qualche signora, quaranta giorni o quarant’anni prima («Sono nel mondo dello spettacolo da trent’anni: non avevo mica capito che rischi correvo»).

Dopo avere parlato di tutti gli altri, da Harvey Weinstein a Kevin Spacey, Chappelle arriva alla parte sensibile. Il suo collega, il suo amico, e anche quello le accuse nei confronti del quale erano più ridicole – epperò all’epoca non era socialmente accettabile ridicolizzarle, se non eri il più bravo a trovare il ridicolo in tutto.

Noialtre leggevamo da mesi i resoconti chiedendoci come fosse possibile che uno che ha come fantasia sessuale farsi una sega davanti a donne con cui non ha relazioni, come fosse possibile che l’immagine di questo tizio che si sbottona i pantaloni paonazzo non fosse oggetto di ridicolo ma di terrore, come fosse possibile che gli avessero tolto tutto (il suo film, i suoi programmi televisivi, la sua tournée teatrale) per punirlo, invece d’andare a teatro a ridere di lui – di lui, non con lui – appena usciva sul palco, invece di cantare «Faccelo vede’» fino a farlo morire di vergogna; noi tacevamo questi nostri dubbi, poi è arrivato Chappelle e: «Non dovrei dirlo, ma le accuse a Louis sono le uniche che mi hanno fatto ridere».

«Una signora ha detto: “Louis ha rovinato il mio sogno di fare la comica”. Sul serio? Mi permetto di dirle, signora: lei non ha mai avuto un sogno. L’FBI aveva un programma per controllare e ricattare le figure pericolose, è per quello che esistono tante registrazioni di Martin Luther King con delle puttane.

Ma, per nostra fortuna, lui un sogno ce l’aveva davvero. Pensate che se Louis si fosse fatto una sega davanti a Martin Luther King lui avrebbe detto “Non posso continuare con questo movimento, mi spiace ma la liberazione dei neri si ferma qui”?». E ancora: «Una delle signore ha detto: “Eravamo al telefono, e mi sono accorta che si stava masturbando”. Non sai riattaccare il telefono?».

Naturalmente le feticiste della fragilità trovano offensivo che Chappelle rida delle vittime invece che dei carnefici, ma a me sembra l’unica posizione rispettosa. Quella che, invece di compatirti come fossi un’inetta incapace di farsi valere, ti chieda: «Sto colpevolizzando le vittime se dico che, se non riesci a fare di uno che si cala i pantaloni materiale comico, forse il tuo talento comico non è un granché?»; quella che ti tratti come una professionista adulta dalla quale ci si aspetta la stessa capacità reattiva che ha Chappelle, la stessa capacità di prendere una bruttura e vederne il ridicolo. A me sembra che l’unica domanda seria, sull’affaire CK, l’unica domanda femminista, l’unica domanda che prendesse sul serio le ambizioni professionali delle signore, se la sia fatta proprio Chappelle: «Com’è possibile che nessuna abbia ancora scritto il monologo Non riuscivo a riattaccare il telefono?».


Il caso di Eddie Murphy - NIENTE BASTA MAI

È il 1996. Eddie Murphy è a San Francisco (città in cui i gay sono preponderanti) a girare un film, e dovrebbe andare ospite da David Letterman, che quella settimana registra il suo programma in città. Un consigliere comunale chiede che l’apparizione televisiva sia annullata, non essendosi Murphy mai scusato per le battute sull’AIDS fatte nel decennio precedente, in quel Delirious di cui dicevo poco fa. Murphy diffonde un comunicato stampa in cui riconosce la gravità dell’AIDS, dice che lui e la moglie conoscevano gente che ne è morta, che è una malattia che ha toccato tutti e in particolare la comunità nera. Soprattutto, dice che è ingiusto imputare a un trentacinquenne informato la sua disinformazione di quand’aveva poco più di vent’anni. «Come tutti, sono più preparato sull’AIDS nel 1996 di quanto lo fossi allora».

Il consigliere comunale è felice delle scuse e le ritiene ben formulate: «Ha indicato il punto che mi stava a cuore, come informarsi sul tema sia importante per tutti noi. Mi gratifica che abbia visto la luce». Se, come me, siete persone orribili, a questo punto penserete a una delle scene iniziali di Una poltrona per due, quando Murphy si finge cieco e senza gambe per mendicare, i poliziotti lo sollevano dalla tavola a rotelle su cui si trascina, gli si vedono le gambe, e lui scappa urlando «Io ci vedo! Miracolo! Il Signore ha aperto a Mosè le acque del Mar Rosso e adesso ha fatto questo a me!». Se riuscite a smettere di ridere, però, c’è un punto quasi serio che la vicenda Murphy ci permette d’illuminare, ed è la differenza tra le scuse nel mondo normale e quelle nell’era dei social. Il secondo insieme si definisce con tre parole: niente basta mai.

Tanto vale stare fermi immobili, e aspettare che lo scandalo dell’altroieri venga dimenticato, perché se è toccato a noi, se siamo quelli che l’internet ha deciso di trovare oltraggiosi stamattina, non ci sono contrizioni che basteranno. Fermi immobili ripetendosi, per sedare l’eventuale panico, che tutte le indignazioni prima o poi diventano indignazioni dell’altro ieri.


L’indignazione su Mel Gibson - LA PIGRIZIA DELL’INDIGNAZIONE

Nell’estate del 2020 una mezza giornata d’indignazioni viene riservata a Mel Gibson, attore con taluni precedenti di scatti d’ira, uscite antisemite, crisi di nervi pubbliche e altre amenità. Lo spunto è un’intervista, al Sunday Times, di Winona Ryder. L’attrice racconta d’una festa alla quale l’aveva incontrato molti anni prima, e del fatto che, saputo che lei era ebrea, lui aveva detto qualcosa come «ah, hai schivato i forni». Mentre ci offendevamo in nome e per conto di tutti gli ebrei dall’Antico testamento a oggi, un giornalista dell’edizione americana di GQ ha timidamente fatto presente che veramente Winona quell’episodio l’aveva già raccontato in un’intervista a lui, dieci anni prima, e all’epoca nessuno aveva fatto un plissé. Beh, figliolo, ma se tu non fai apposito screenshot da condividere sui social rendendoci comoda la suscettibilità, non è che puoi pretendere che compriamo i giornali.


Il dialogo con l’americano - L’AMERICANO CHE SAPEVA LE DONNE

All’inizio del 2018 un giornalista italiano mi dice che Buzzfeed sta preparando un’inchiesta (chiamiamola così per generosità lessicale) sul maschilismo della politica italiana, e se mi va di parlare col tizio che scriverà l’articolo. Che cosa potrà mai andar storto. Quella con l’americano che difendeva le donne è una delle conversazioni più lunari che mi sia mai accaduto d’avere.

Comincia con lui che mi dice che l’Italia è maschilista perché nessun politico riceve la quantità d’insulti che riceve Laura Boldrini. Chiedo: l’ha verificato? Mi guarda con la polemica che gli luccica negli occhi (finalmente qualcosa che farà cliccare l’articolo, puntesclamativo): quindi sto dicendo che la Boldrini s’inventa gli insulti? No, sto chiedendo se lui, che si appresta a scrivere che la Boldrini è la più insultata d’Italia, sia andato a verificare le pagine degli altri politici, e a contare gli insulti: non frequento la pagina della Boldrini né quelle di altri politici, ma frequento i social, osservo la fauna che li popola, e tendo a escludere che sulla pagina di Grillo o su quella di Renzi i commentatori si portino come Lady Bracknell [...].

Credo che, se avessi bruciato la sua bandiera, all’americano che difendeva le donne si sarebbero gonfiate meno le vene del collo. Alzando la voce, si è messo a spiegarmi l’importanza dei modelli comportamentali, una questione che gli era evidente non avessi capito. Per sua fortuna non ero una delle donne che piacciono a lui, altrimenti l’avrei accusato di mansplaining. Ve l’avevo detto che ogni nuova parola era una nuova scemenza da arginare, specie se parola inglese: mansplaining è quando un uomo spiega a una donna cose che ella già sa, ma egli non crede sappia perché è donna e quindi intellettualmente inferiore. A sentire le femministe dei cancelletti, questa cosa accade tutti i giorni più volte al giorno; a me non era mai capitata finché non ho incontrato un maschio femminista americano, e non mi è mai più capitata dopo: sono proprio un donnino fortunato.

Ma la parte migliore della conversazione è avvenuta sul finale, quando lui mi ha spiegato che certe critiche, insulti, osservazioni toccano solo alle donne. Nessuno mai, mi ha detto col tono di chi declama un’acclarata verità, commenta l’estetica d’un uomo.

Ho strabuzzato gli occhi. È un argomento che vedo spesso usare on line, ma è così scevro del principio di realtà che strabuzzo gli occhi ogni volta (dovrebbe esistere un risarcimento per le rughe indotte dall’altrui scemenza argomentativa).


La copertina di Vogue - LA RICERCA SPASMODICA DEL CRETINO

Nel 2005, a social network non ancora nati, l’edizione americana di Vogue mette in copertina Drew Barrymore che posa con un leone. Nel 2020, non calcolando come siano cambiati i tempi, posta su Instagram quella vecchia copertina, e sotto è tutt’uno scandalo di animalisti offesi, i leoni devono stare liberi nella savana, mica in uno studio fotografico. Tuttavia – colpo di fortuna o sapienza nel manipolare l’algoritmo? – se vi perdete quello specifico post e relativi commenti non saprete nulla della polemica: la ricerca su Google di «Drew Barrymore leone polemica» risulterà in una serie d’articoli che riprendevano una dichiarazione della Barrymore del 2018. La dichiarazione diceva che, per perdere i chili della gravidanza, la signora aveva combattuto «come un leone». Se fossi incaricata di proteggere la reputazione on line d’una multinazionale, assumerei la Barrymore immediatamente.


Chiara Biasi - L’INDIGNAZIONE DEPERIBILE

Alla fine del 2019 ci siamo offese (di nuovo in quanto incapienti, e sempre in quanto passanti) con tal Chiara Biasi, chiunque ella sia (anche lei una pagata per prendere i cuoricini su Instagram vestendo il marchio tal dei tali, ma più pagata di quella di prima), perché in una candid camera durante un litigio aveva detto che lei per ottantamila euro neanche si alza dal letto. Le più vecchie trombone di noi hanno creduto fosse un omaggio a un’analoga affermazione di Linda Evangelista (megamodella degli anni Novanta, quando le modelle stavano sui giornali invece che sui social, di esse si sapevano i nomi, e della loro avidità non ci s’indignava: forse perché i giornali, diversamente dai social, avevano la saggezza di non lasciarci intervenire).

Le altre si sono compattamente scandalizzate, con commenti che andavano da «uno schiaffo a chi si alza alle tre di notte per mille euro al mese» (chissà se è lo stesso schiaffo di Charlize Theron) a «non so se vi ricordate di quando si è comprata uno spazzolino da 35 euro» (siamo così, dolcemente complicate: seguiamo i social della gente coi soldi e poi ci irritiamo quando quella si comporta da gente coi soldi) a «milioni di persone in Italia vivono nella disperazione, defollow di massa» (in effetti le crisi economiche strutturali in genere si risolvono seguendo sui social solo la Caritas) a «cancella i commenti, cara mia, il popolo di Twitter parla e tu non puoi fermarci».

Ovviamente, per lei come per tutti gli altri casi qui elencati, quelli che ci sono sembrati la fine del mondo e della civiltà per mezza giornata, un giorno e mezzo più tardi non se ne ricordava più nessun popolo, né di Twitter né d’altrove (e per fortuna: v’immaginate che mondo sarebbe se dedicassimo più di due minuti della nostra attenzione alle sbagliatezze dette dagli sconosciuti?).


L’amica influencer - L’INDIGNAZIONE DEPERIBILE

Ho un’amica che viene sempre presentata come influencer. In realtà fa l’imprenditrice, ma – siccome ha molto seguito sui social e li usa per promuovere i prodotti della sua azienda – la pigrizia giornalistica la qualifica come influencer, un attributo che dovrebbe dirci che sei in grado di influenzare le nostre scelte e i nostri consumi ma in realtà significa più che altro che se posti una cosa su Instagram ti mettiamo molti cuoricini.

Recentemente l’amica è stata presa in giro da un programma radiofonico che fa della comicità di grana piuttosto grossa. Ha quindi passato tre giorni a pubblicare video in cui: si diceva offesa; pretendeva le scuse del programma; pretendeva le scuse della radio; si diceva offesa in quanto donna; si diceva offesa in quanto lavoratrice; annunciava querele sostenendo che paragonarla a Belzebù non era satira ma diffamazione.

«Signor giudice, mi hanno diffamata dicendo che ero come Belzebù» è una causa cui assisterei con gran sollucchero, ma ho evitato di dirglielo perché i tribunali mi sembrano già abbastanza intasati. E anche perché, in quei tre giorni, mi sono assunta l’ingrato compito di dirle di smetterla e di chiederle se fosse impazzita, mentre follower d’ogni grado di notorietà le davano ragione, vai a sapere se perché suscettibili per suo conto o se perché così si garantivano che il loro video venisse ripostato e visto da milioni di persone.

Quando, settimane dopo, ne abbiamo discusso a freddo, la mia amica mi ha detto che io non capivo il mezzo: «Bisogna sapere quali flame cavalcare e quali no. Io con quel flame lì ho guadagnato diecimila follower».


Il caso di Telefono Azzurro - NESSUNA SUSCETTIBILITÀ È STATA MALTRATTA

Nell’autunno 2020 Telefono Azzurro, la storica linea telefonica che soccorre bambini maltrattati, fa un gesto suicida. Produce uno spot, col suo bravo cancelletto #PrimaIBambini, in cui un tizio entra in una casa in fiamme, si avvicina a un tavolo sotto il quale ci sono due bambini e un cane dicendo con aria rassicurante «Va tutto bene», prende il cane ed esce tenendolo in braccio, mollando lì i bambini. Ne segue una preziosissima bufera sul web: non solo questi incoscienti non hanno tenuto conto dell’istanza «i cani sono la mia famiglia», ma neanche hanno apposto un trigger warning che rassicurasse il pubblico suscettibile. Se non ce lo dice nessuno, siamo autorizzati a pensare abbiano dato davvero fuoco al cane di scena. (E ai bambini, anche: me li stavo dimenticando anch’io).


L’episodio a scuola - NON C’È LA FILA IN QUANTO

Ho capito che c’era qualcosa che non andava in me in quinta elementare. Avevo frequentato i primi quattro anni in una scuola dentro a un parco, si usciva alle quattro e mezza e si faceva merenda con certe rosette riempite di marmellata o nutella che venivano portate dentro secchi di plastica, senza alcun rivestimento singolo. Ogni volta che ci ripenso mi chiedo se oggi sarebbe più uno scandalo per le norme igieniche o per le allergie al glutine allo zucchero alla vita. In quinta mi spostarono nella scuola dove avrei fatto le medie, un istituto privato gestito da preti barnabiti, si usciva dalle lezioni all’una, in compenso in classe s’indossava un punitivo grembiule nero. Un pomeriggio vado a trovare i miei ex compagni e a un certo punto, chiacchierando e ridendo, ero in piedi ma ricordo ancora a che banco ero appoggiata, di fianco alla cattedra, dico «Stronza». La maestra s’impettisce, non mi dice come la me adulta s’aspetterebbe «Non si dicono queste parole», probabilmente perché ero sempre stata una parolaccia e lei essendo stata la mia maestra per quattr’anni aveva smesso di stupirsene. Mi dice «Tu queste parole non puoi usarle, perché non sei più di questa classe». Quindi era quella cosa lì, l’identità: o sei dentro, o sei fuori.


L’articolo su Zidane - OGGETTO E BERSAGLIO: TROVA LE (PICCOLE) DIFFERENZE

Per aver scritto un articolo, dopo la finale dei mondiali del 2006, che cominciava con «Io sto con Zinedine. Perché ha un’impagabile aria da criminale gentiluomo; per la cravatta allentata e la barba sfatta con cui è andato da Chirac» e proseguiva dicendo che Zidane era irresistibilmente occhiazzurrato e Materazzi orrendamente tatuato. Fu forse il record di lettere indignate ricevute da un giornale che mi pubblicasse.

Selezione purtroppo minima (ci vorrebbe un volume a parte) di stralci: «Sconcertante e dannoso per un pubblico giovane. Propone infatti come positivi comportamenti che non lo sono affatto: la maleducazione (la barba sfatta ad un incontro ufficiale)»; «Il signor Zidane era da processare per tentato omicidio, come hanno dimostrato i medici, mentre Chirac e i francesi, e ora anche lei, per apologia di reato»; «La consueta mistura di radical-chic, gauche caviar, progressismo snob e finto anti razzismo esala dall’articolo becero della Soncini»; «Allora, se qualcuno mi insulta mentre sono al volante, sono autorizzata a scendere e spaccargli il cric sulla testa?»; «Io da oggi questo giornale non lo acquisterò più fin tanto che Lei ci scriverà, perché non voglio che i miei soldi vadano a una come Lei»; «Non so se lei ha figli, io sì e queste violenze, giustificate da persone come lei finto-buonista-antirazzista e di certo progressista, non sono certo un buon esempio da dare ai bambini»; «Lei sta con l’occhiazzurrato signor Zidane perché è più figo? Perché non chiede la cittadinanza francese?»; «Gentile Sig.ra Guia Soncini metta pure anche noi tra coloro che la accusano di apologia di reato ed anche tra coloro che si chiedono quali principi e valori le abbia trasmesso sua mamma, visto che lei esalta mamma Zidane» (quest’ultima mail aveva una firma di coppia: dovevano ancora arrivare Facebook e gli account matrimoniali, ma l’umanità che li avrebbe popolati già esisteva).


Le donne dell’ovest - NON C’È NIENTE DA RIDERE

Le donne dell’ovest, offese con Paola Perego, in una cui trasmissione era stato scherzosamente (ma non conta: quando c’è da offendersi, una battuta vale come un editoriale) detto che gli uomini preferiscono le donne dell’est per una lista di ragioni che vanno da «perdonano il tradimento» a «sono disposte a far comandare il loro uomo». (Qui l’offesa era perfezionata dal fatto che la lista delle ragioni era stata dagli autori del programma messa in apposita schermata, comodamente fotografabile dal telefono e condivisibile per velocizzare l’indignazione).

Gli asessuali, anch’essi (ma un anno dopo) offesi con Paola Perego perché aveva scherzato sul loro non voler avere rapporti. A parte la recidività della Perego nel ritenere che nel nostro tempo si possano dire cose in tono lieve e non sentirsele rinfacciare come fossero proposte di legge, questo è il caso che mi ha più sorpreso. Se uno decide di non avere rapporti sessuali, immagino lo faccia per risparmiarsi soprattutto le scocciature annesse. Farne una militanza politica, una questione identitaria, un’appartenenza in nome della quale offendersi non è come sbattezzarsi? Ho sempre trovato inspiegabili quelli che, non credendo in un qualche dio, si prendono il disturbo di far cancellare da registri e documenti che è stata loro versata dell’acqua in fronte quando avevano pochi mesi.


La cancel culture - ANGOLI DI NICCHIE DI FRAZIONE DI MINORANZE

La cancel culture è ormai un tema così à la page che ti si nota di più se non te ne occupi. Ci stava per fare un libro Julie Burchill, la più interessante bastiancontraria d’Inghilterra: l’uscita di Welcome to the Woke Trials: How #Identity Killed Progressive Politics era prevista nell’aprile 2021; il libro avrebbe raccontato d’una volta in cui gli invasati di Twitter avevano chiesto (e ottenuto) la rimozione d’un articolo di Burchill accusandola di transfobia; poi, a dicembre 2020, Burchill s’è messa di nuovo a polemizzare su Twitter (questa volta il tema era Maometto), e l’editore ha dato retta ai suscettibili che la accusavano d’essere islamofobica, annullando l’uscita del libro. Ci ha fatto un documentario per la tv inglese Irvine Welsh (l’autore di Trainspotting, che mette l’uccisione d’un cane in ogni suo romanzo da quando s’è accorto che la gente se ne ha più a male rispetto a quando uccide gli umani: avrà lo stesso pubblico di Garrone).


I due fuoriscena - STAI PARLANDO CON ME?

Due scene con fuoriscena, da due programmi comici del 2019.

Nel primo viene fatta la più innocua delle battute, sugli italiani che a quarant’anni ancora vivono con la mamma. Alla fine della registrazione, un tizio del pubblico in studio dà in escandescenze. Diverse persone tentano di calmarlo, e alla fine tocca chiamare la comica che aveva fatto quella battuta. Battuta che il signore era convinto fosse un attacco personale a lui. La comica non lo conosce, nessuno del programma lo conosce, ma lui vive con la mamma, e pretende che loro capiscano che c’è chi vive con la mamma perché ha dei problemi, non ha soldi, non ha lavoro. E lo capiscono tutti.

Quel che non capisco io è perché un programma televisivo che fa una battuta su un tema che ti riguarda ti faccia reagire come una fidanzata che ti lascia.

Nel secondo c’è un attore che fa il personaggio d’un leghista. Fa molto ridere, anche perché il programma è molto di sinistra, e il leghista che arriva e monologa è uno di quei contrasti che funzionano. Il contrasto dura una puntata. Dalla seconda – tra i teatri veneti che minacciano ritorsioni contro l’attore, accusato d’essere «un veneto che parla male del Veneto», e l’illuminatissimo pubblico d’un programma comico di sinistra che, al funerale del contesto, si scandalizza per lo spazio dato a uno di destra – tocca mettere delle scritte in sovrimpressione: è un personaggio di fantasia, quello che vedete è un attore.

È il tempo, che fa la differenza (oggi siamo più esposti di ieri a manifestazioni di fragilità, e quindi tendiamo a emularle), o il luogo (oggi ci fingiamo l’America, e quindi pensiamo di dover applicare lo stesso puritanesimo)?


La vignetta di Mattia Santori - CHI SI OFFENDE È PERDUTO

Mattia Santori è uno di quelli che, tra il 2019 e il 2020, si sono inventati il movimento chiamato Sardine. Sembravano il futuro della sinistra, e un mese dopo sembravano remoti come un governo Goria: chissà se è stato il Covid che ha modificato le priorità o se in quanto prodotto ittico erano ontologicamente deperibili. Un paio di settimane prima che scattasse la quarantena da virus, con squisito tempismo, Santori formula la proposta d’un Erasmus tra nord e sud Italia.

Non viene irrisa quanto avrebbe dovuto (la satira ha da tempo rinunciato a occuparsi dell’attualità italiana che quotidianamente la supera in curva, e oltretutto col virus chiudono le poche produzioni televisive che s’occupassero di spernacchiare il dibattito pubblico: sono le settimane in cui cantiamo dalle finestre e abusiamo della parola eroi); l’unico a farci una vignetta è un disegnatore di destra che ritrae un tizio sulla tomba di Santori che guarda la lapide sospirando «Lo sapevo non è stata una grande idea l’Erasmus tra nord e sud Italia, con ’sto Coronavirus in giro». La vignetta non fa ridere, non fa pensare, non fa niente, come quasi sempre accade alle vignette non disegnate da Altan. Andreotti avrebbe finto d’apprezzarla e ne avrebbe chiesto l’originale da incorniciare.


EPISODI REALI GRAVI

L’episodio del ristorante - LA MORTE DEL CONTESTO

Nella primavera 2020, un tizio che di mestiere era famoso su Instagram aveva chiamato a raccolta l’indignazione collettiva per un filmato trovato in rete: un cliente di ristorante non inquadrato ma dalla parlata romanesca diceva a una cameriera dai tratti orientali «Cinese, mi stappi il vino, grazie cinese grazie». Il semifamoso non si era limitato a far conto sulla nostra sensibilità e sullo spontaneo raccapriccio per il vocativo razziale; ci aveva didascalizzato il perché quel che avevamo appena visto era male: «Quello che mi dispiace più di tutto è che evidentemente questa ragazza si sarà sentita mortificata da queste parole, e non ha avuto la prontezza o il coraggio o la forza in quel momento di chiedere a queste persone di abbandonare il locale, che sarebbe stato quello che avrei fatto io anche solo se avessi assistito a questa scena senza che le parole fossero rivolte a me. La mia solidarietà va a questa povera ragazza».


Il caso del professore - IL SECOLO FRAGILE

Il professor Coleman Silk va in rovina per un equivoco che sembra uscito da una qualunque giornata su Twitter (che all’epoca ancora non era stato inventato): chiede se i due studenti che non si presentano mai alle sue lezioni siano spooks, spettri; non li ha mai visti, quindi non sa che sono neri, e – sfiga nera, verrebbe da dire, ad aver voglia di farsi accusare di battute razziste – spooks è anche un modo offensivo per dire neri. Il professor Silk ha fatto una battuta innocentissima, ed è perciò ufficialmente razzista.


Il caso di un’autrice comica su Twitter - NIENTE BASTA MAI

Nella primavera del 2020, tocca a un’autrice comica statunitense con tutte le credenziali giuste rispetto alle buone cause, e che però usa il suo account Twitter per fare battutacce. Per chi scrive di mestiere, Twitter è una palestra: non sai se una cosa funziona finché non l’hai scritta, e a volte è proprio se tutti si offendono che la cosa che hai scritto funziona. Oddio, «a volte»: sempre; nell’epoca in cui tutti si offendono per tutto, le uniche frasi che non suscitano indignazioni sono quelle che nessuno ha letto [...].

L’autrice comica si scusa, nella primavera 2020, per aver twittato, nel 2011 (prescrizione, dove sei), due righe che facevano così: «Non è più politicamente corretto chiamarli “ritardati”. Adesso devi chiamarli “asiatici”». Il meccanismo comico gioca sul fatto che la frase potabile sarebbe che non è più accettabile dire cose come «musi gialli», e che la dicitura corretta è «asiatici», esattamente come Eddie Murphy oggi non direbbe faggot, frocio, ma userebbe un’espressione non sconveniente; ma chiedere ai passanti dei social di capire un meccanismo comico significa non aver chiaro quanto bassa sia la loro soglia d’attenzione e quanto alta la loro determinazione a indignarsi. E infatti la folla notifica tutto il proprio sdegno alla poverina, giacché ella nel suo comunicato di scuse ha sì chiesto perdono alla comunità asiatica, ma non a quella dei disabili (per l’uso di «ritardati»).


Il caso del negozio per taglie forti di Roma - NIENTE BASTA MAI

Niente basta mai: nell’autunno 2019 un negozio per taglie forti di Roma compra degli spazi pubblicitari in cui, sopra la foto d’un’obesa vestita da coniglietta, c’è lo slogan «T’abbacchi a Natale?». Inutile dire che il proprietario viene accusato, a seconda della lingua preferita dai parlanti suscettibili, di fat shaming, cioè di svergognare il grasso (un negozio per taglie forti), o di grassofobia, cioè di temere il grasso (sempre un negozio per taglie forti).

Intervistato, il proprietario dice che un’esponente del PD (forse davvero timorata dell’obesità) ha chiesto al sindaco di coprire i manifesti («penso che la Raggi abbia cose più importanti a cui pensare»), che in Italia siamo tutti arrabbiati e nessuno ride più, ma soprattutto chiarisce l’impossibilità d’uscire da quel vicolo cieco che è la suscettibilità. «Abbiamo fatto diverse campagne pubblicitarie negli anni, utilizzando sempre modelle in taglia 46-48, e tante clienti che venivano da noi, oltre la taglia 60, si lamentavano in quanto non si rispecchiavano nell’immagine pubblicitaria». Se ci metti la modella obesa ti tirano le pietre, se ci metti quella formosa ti tirano le pietre.


La studentessa vietnamita - LA PIGRIZIA DELL’INDIGNAZIONE

In un’università californiana l’anno scorso c’era una studentessa vietnamita che si chiamava Phuc. Un anglofono lo pronuncia come fuck (scopare, ma anche parolaccia passepartout). Un professore le ha chiesto di anglicizzarsi il nome perché non suonasse come un insulto. Io l’avrei fatto prima ancora che me lo chiedesse («Esatto: Giulia» dico sempre ai centralinisti per velocizzare il tutto). Una più pronta di riflessi di me gli avrebbe risposto che, se solo fosse stato più fluent in vietnamita, avrebbe saputo che la pronuncia di Phuc è in realtà “foub”. Phuc invece è figlia del secolo fragile, e perciò ha denunciato il comportamento discriminatorio del professore, che è stato sospeso dall’insegnamento.


Le donne offese - NON C’È NIENTE DA RIDERE

Le donne, offese con Roberto Burioni che aveva affermato l’inesistenza delle brutte: basta curarsi di più per essere carine, affermava il tweet che poi ha cancellato illudendosi così di mettersi al riparo dagli insulti. Incidentalmente, la caritatevole bugia di Burioni è quella su cui campano da secoli i giornali femminili, che se non c’illudessero che basta una crema a fare di noi Cindy Crawford non potrebbero venderci creme. Incredibilmebnte, scegliamo d’offenderci con chi sposta la tenda di Oz (il mago, non la fabbrica di cosmetici), mica con chi non ci ha mai detto che no, non siamo tutte comunque belle, come non siamo tutte Nobel per la chimica: le qualità sono tali perché alcuni le hanno e altri no, e non c’è da crucciarsi di non esser belle, se non si è pagate per esserlo, più di quanto ci sia da crucciarsi di non saper fare un doppio carpiato con piroetta (c’è anche la stessa probabilità di colmare la lacuna curandosi di più).


Il caso della signora di Central Park - ANGOLI DI NICCHIE DI FRAZIONE DI MINORANZE

C’era stato il caso della signora di Central Park, adesso nessuno se ne ricorda più perché è un’indignazione dell’altroieri, ma per un po’ non si parlò d’altro. Un uomo nero aveva ripreso una tizia (bianca) che era in una zona di Central Park in cui si osservano gli uccelli (attività svolta dall’uomo nero) con un cane non al guinzaglio. In estrema sintesi: lui le diceva di legare il cane, lei si faceva venire una crisi isterica e chiamava la polizia.

Vuole farlo uccidere, commentavano compatti gli americani, in quel momento particolarmente sensibili al razzismo della polizia (l’incidente era avvenuto il giorno in cui un poliziotto aveva ucciso George Floyd), e apparentemente incapaci di capire che, se la polizia uccide quelli che ferma, è sensato chiedere che la polizia smetta di farlo, non che la gente smetta di chiamare la polizia se si sente in pericolo.

Veniva deciso che la tizia fosse razzista, e i social chiedevano il suo licenziamento e lo ottenevano (l’osservatore di uccelli diceva le cose più equilibrate, come spesso accade quando un caso attrae folle deliranti in preda a ricatto partecipativo: i commentatori sono sempre assai meno lucidi dei protagonisti).


La nuova norma redazionale - ANGOLI DI NICCHIE DI FRAZIONE DI MINORANZE

Nell’estate del 2020, l’Associated Press, seguita da altre testate giornalistiche americane, stabilisce una nuova norma redazionale: nero, black, quando non è la tinta d’una giacca recensendo una sfilata ma un’identità razziale, verrà scritto con la maiuscola (come in inglese vengono scritte le nazionalità). Spesso le buone intenzioni fanno tutto il giro e generano mostruosità, e questo mi sembra uno di quei casi: tenendo minuscolo white, stai dicendo che ai bianchi è concessa la libertà di definirsi un po’ come preferiscono, ma i neri sono innanzitutto maiuscolamente neri. Che tu abbia scoperto il vaccino per una malattia terminale o scritto il romanzo definitivo, comunque il tuo principale aggettivo deve riguardare il colore della tua pelle8. Come si faccia a considerarlo progresso trascende la mia comprensione. Ma sto divagando.

Quando una giornalista (nera, e premio Pulitzer per una controversa inchiesta sullo schiavismo) annuncia entusiasta su Twitter che il suo giornale, il New York Times, scriverà d’ora in poi maiuscolo Black, le prime risposte che le arrivano sono: «Ora se solo smettessero di usare “ispanico” e adoperassero “latinx”» «Ma i latini e gli ispanici non sono due gruppi diversi?» «No» «Non c’è accordo neanche tra di noi su questo, è una cosa generazionale» «La comunità latina ha moltissime volte detto che non le piace “latinx”, le parole coi generi sono parte della nostra lingua, cercare di neutralizzarle è assurdo» – eccetera.

Pochi giorni prima, un analogo dibattito ha riguardato un nuovo acronimo. Fino ad allora si è usato POC, People of Color, mentre ora pare che l’espressione corretta sia BIPOC, Black [and] Indigenous People of Color. Si era dibattuto tra chi lo trovava ridondante e chi doveroso, chi «colore è colore» e chi «basta ignorare gli indigeni d’America».


Il Black Friday - CHI SI OFFENDE È PERDUTO

L’inglese è più malleabile, e il risultato è che ogni giorno c’è una novità lessicale. A luglio 2020, Twitter ha fatto sapere che nei suoi uffici si era deciso di eliminare alcune parole dal lessico abituale, per mostrare maggiore sensibilità razziale. Tra le parole eliminate, blacklist. La lista nera non può più essere nera, perché nero non può essere sinonimo di negativo. Non hanno precisato che cosa faranno del Black Monday, il lunedì nero borsistico che sta nella storia della finanza.

Black Friday già avevamo smesso di usarlo, dopo aver importato dall’America l’usanza del venerdì di saldi a fine novembre, e il relativo nome, dopo essercisi gettati su con una brama pari a quella con cui ci siamo appropriati di Halloween.

A togliere la dicitura dal mercato era stata un’indignazione dell’autunno 2019: il Corriere dello Sport aveva aperto la prima pagina col titolo Black Friday, su una foto di due calciatori neri della Roma e dell’Inter che quella sera avrebbero giocato uno contro l’altro. Il titolo si richiamava a «scudetto e Champions in offerta», nel sommario, ma non c’è stato niente da fare: l’opinione pubblica ha deciso che era un titolo razzista, Roma e Inter hanno vietato al giornale l’accesso alle loro conferenze stampa, si sono indignati un po’ tutti. Mi è rimasto il dubbio che, per vedere del razzismo in quel titolo, occorresse essere un commerciante di schiavi e quindi pensare che quelli in saldo fossero i giocatori, ma non volevo offendere mezzo mondo e quindi non l’ho detto. Sia chiaro che non lo sto dicendo neppure ora.

Il caso Rowling - L’AMERICA È LONTANA, DALL’ALTRA PARTE DELLA LUNA

Anni dopo è arrivato il caso Rowling, e anche i più refrattari al tema sono stati costretti a imparare l’acronimo TERF (Trans- Exclusionary Radical Feminist). J.K. Rowling è l’autrice di Harry Potter, epperciò universalmente benvoluta. Almeno fino a quando non prende, a dicembre 2019, le difese d’una ricercatrice inglese, licenziata per aver fatto dei commenti ritenuti transfobici. I commenti erano roba del tipo «La biologia esiste». Secondo il nuovo femminismo suscettibile, se dici che gameti diversi danno sessi diversi e che quella realtà lì non la cambi con la percezione, sei contro i (o le) trans. Li vuoi morti. Vuoi incitare a discriminarli, ai pestaggi, al rovinare le loro vite. Perché hai detto che la biologia esiste. Purtroppo sarò morta per allora, ma dovrà essere molto divertente vedere gli archeologi ricostruire il tempo in cui la sinistra illuminata aveva posizioni omologabili a quelle della chiesa cattolica ai tempi di Galileo [...].

Passano sei mesi, e Rowling osa fare una battuta. È un momento molto istruttivo per chi ascolta da anni Gervais sgolarsi sulla differenza tra oggetto e bersaglio della battuta. Va così: un giornale titola chiedendo soluzioni post-Covid per le «persone che mestruano», e Rowling ci fa un tweet spiritoso, «Persone che mestruano, eppure c’era un nome per chiamarle, ricordatemi un po’ qual era». Apriti cielo.

Era una battuta contro chi cambia sesso? No: era una battuta contro chi ha paura delle parole. Era una scrittrice (una che lavora con le parole) che ci diceva che, dalla Bibbia a Shakespeare, che le cose abbiano specifiche parole per essere dette è un tema classico. I polemisti dilettanti hanno meno familiarità di lei con le parole, e una delle prime accuse è: quindi stai dicendo che chi non mestrua non è una donna, chi è stata sterilizzata, chi è in menopausa, quella non è una donna. Rowling non perde tempo a spiegare la corrispondenza non biunivoca – ha detto che una persona che mestrua è una donna, non che una che non mestrua non lo è: eravate assenti quando alle elementari hanno spiegato l’insiemistica? – ma ormai il tamponamento a catena è avviato.

Il meccanismo per cui Rowling viene insultata per mesi per quel tweet (una delle rarissime indignazioni a durare più d’un giorno e mezzo) è assai girardiano: la storia raccontata non dal capro espiatorio ma da chi l’ha sacrificato è quella che viene ufficializzata, e quindi neanche i più benevolenti, quando ne parlano, si riferiscono a «quella volta in cui linciarono a casaccio Rowling non avendo capito cos’avesse scritto», bensì chiedono, con una dialettica inconsapevolmente da caccia alle streghe, «cosa pensi dei commenti transfobici di Rowling?», una domanda che già contiene la condanna.