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Dalla cancel alla compassion culture
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{{Torna a|Sociability di Francesco Oggiano}}Come ne usciamo? Betty Hart, attivista, ha suggerito di sostituire la cancel culture con la compassion culture. La cultura della compassione e dell’empatia. L’illiberalità vive grazie a due precondizioni, a due assenze. La prima è l’assenza di dubbi. La seconda è l’assenza di fiducia nell’abilità umana per eccellenza, quella che ha permesso a noi umani di stare al mondo: l’abilità di evolverci. La cancel culture dà per scontato che chi ha fatto una battuta razzista dieci anni fa sia la stessa persona di oggi. Eppure, basta guardare a chi eravamo noi dieci anni fa per capire quanto si cambi (e possibilmente si possa migliorare) nel tempo. Provate a fare questo: ripercorrete all’indietro il feed del vostro Facebook. Rileggete i vostri post, specie i primi in cui scrivevate senza avere ancora in testa l’idea di un pubblico che vi leggesse. Quanti di quei post, se venissero mostrati a una folla poco generosa nei vostri confronti e priva del concetto di dubbio, vi esporrebbero al pubblico ludibrio?<blockquote>La verità è che non so nemmeno quantificare le cose dette o fatte in questi anni, sui social come nella vita reale, di cui oggi non vado fiero. Così come non so neanche prevedere tutte le cose che nei prossimi giorni dirò o farò e di cui tra qualche decennio mi vergognerò. Perché nessuno di noi è immutabile e perfetto. Nessuno di noi è definito da come appare nei social o da una singola frase. Siamo tutti, stupendamente, umani. La cosa più saggia che possiamo fare è provare ad abbandonare la tentazione moralizzatrice-linciante, constatare la nostra differente ma uguale imperfezione e abbracciare la compassione. Che letteralmente significa “soffrire insieme a qualcuno”. Qualcuno di diverso da noi.</blockquote>Immaginate il pranzo di Natale. Avrete sicuramente uno zio, un nonno o addirittura un genitore che dirà frasi per voi inaccettabili. Magari contro gli immigrati o contro le persone Lgbtq+. Avete due scelte. Alla prima frase che non condividete (e credetemi, nei miei pranzi di Natale non ne condivido a centinaia) potete decidere di cancellare quel parente, non partecipare più ai pranzi e non invitarlo più ai vostri pranzi di famiglia. In quel caso voi non lo vedrete più e lui non ascolterà neanche più il vostro punto di vista. Oppure, potete scegliere di andare lo stesso ai pranzi, di ascoltare quelle frasi, criticarle o ascoltarle in silenzio. Potete cioè “soffrire” assieme a lui. Perché quelle frasi, per quanto inaccettabili, non definiscono per intero la sua persona, ma solo un pezzetto della stessa. Andando ai pranzi di Natale, nonostante tutto, voi scegliete il tutto, il pacchetto completo, che è sempre più valido di un singolo pezzo. Il crollo del contesto, la cancel culture, i linciaggi sono solo l’estremizzazione e la stortura di un certo modo di fare attivismo, anche e soprattutto sui social. Per capire come ci siamo arrivati, dobbiamo fare un passo indietro. Al 2001. Al G8. A Genova. [[Categoria:Cancel Culture]] __NOINDICE__
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