Cancel culture e illiberali di sinistra

Da Tematiche di genere.
Versione del 1 giu 2022 alle 10:22 di Admin (discussione | contributi) (Creata pagina con " =Dalla damnatio memoriae alla cancel culture= ===Episodi di ingiustizie=== *Il compositore ''Daniel Elder'' è stato ostracizzato dalla sua etichetta di produzione per essers...")
(diff) ← Versione meno recente | Versione attuale (diff) | Versione più recente → (diff)
Vai alla navigazione Vai alla ricerca

Dalla damnatio memoriae alla cancel culture

Episodi di ingiustizie

  • Il compositore Daniel Elder è stato ostracizzato dalla sua etichetta di produzione per essersi lamentato su Instagram del rogo dello storico municipio di Nashville durante una manifestazione del Black Lives Matter.
  • Il biologo Richard Dawkins si è visto ritirare un prestigiosissimo premio ricevuto 25 anni prima per alcuni tweet mal interpretabili sulle persone transgender.
  • Blake Bailey si è visto rifiutare la pubblicazione già decisa della sua biografia autorizzata di Philip Roth e cestinare le altre sue opere dalla casa editrice per accuse, tra l'altro mai confermate, di molestie risalenti a trent’anni prima.
  • La giornalista afroamericana Alexi McCammond, già nominata direttrice di «Teen Vogue», è stata costretta a farsi da parte per una serie di tweet considerati xenofobi scritti dieci anni prima, quando non era ancora maggiorenne.
  • Emily Wilder, giovane reporter appena assunta all’Associated Press, è stata licenziata dopo che alcuni politici hanno ripubblicato su Facebook alcuni suoi post critici su Israele scritti durante gli anni universitari.

Definizione cancel culture

Gli americani. Coniano termini cool, battendo sempre tutti sul tempo, e facendoceli sembrare nostri.

L‘espressione che più ha attecchito all’inizio del decennio è forse “cancel culture”.

Il dizionario Merriam-Webster la definisce come «la rimozione del supporto a pubbliche figure in risposta a comportamenti o opinioni discutibili». Dictionary.com come «il ritiro del supporto a personaggi e aziende che hanno fatto o detto qualcosa di opinabile o offensivo».

Ligaya Mishan, in un saggio per il «New York Times», dice: nessuno sa cosa significhi veramente. «Il termine viene applicato in maniera parecchio confusa» a incidenti della più varia natura, che si verificano sia online che offline. Coloro che partecipano all’idea della cancel culture non si limitano alle scuse e alle ritrattazioni da parte del personaggio o dell’azienda che ha detto qualcosa di considerato sbagliato. Vogliono di più: il loro licenziamento, il loro fallimento, la rimozione dei loro prodotti. La loro cancellazione. Non è sempre chiaro quale sia l’obiettivo: se correggere uno specifico torto, riparare uno squilibrio di potere o ottenere vendetta.

Com'è nato il termine cancel culture

Secondo Vox il primo uso del termine è datato 1991 ed è intriso di machismo. Il verbo to cancel inizia a essere usato come l’azione di eliminare qualcuno dalla propria vita. Secondo alcuni linguisti specializzati nella cultura afroamericana come Anne Charity Hudley, «il concetto della cancellazione non è nuovo alla black culture». Per i più critici come Ligaya Mishan, la cancel culture è solo la versione più patinata e moderna del vecchio capro espiatorio caro agli ebrei o del pharmakos caro ai greci.

La cancel culture è vista come naturale evoluzione della "Call-out culture". Il termine risale ai primi anni 2010, si rifà agli spazi su Tumblr e indica l’abitudine sui social di esporre comportamenti considerati impropri, senza però chiedere la testa della persona che quei comportamenti aveva adottato.

Che cos’è cambiato rispetto al passato? In fondo come umani il nostro istinto è stato sempre quello di cancellare qualcuno che non sopportiamo: di desiderare ardentemente il licenziamento di quel collega insopportabile; di volere eliminato dalla competizione elettorale quel partito che consideriamo pericoloso. Abbiamo sempre esposto e diffamato chi non gradivamo, magari tramite sussurri e campagne diffamatorie di orecchio in orecchio. Ma per Anne Applebaum, che ha scritto il favoloso articolo “The new puritans”. E più che un mezzo per smascherare gli inganni, combattere gli abusi del potere e contrastare le ingiustizie tramite la potenza della rete, rischia di trasformarsi in una sequela di linciaggi di folla sui social media.

A farne le spese, più che i potenti sono le persone comuni.

Quelle che, a differenza di scrittori, comici e celeb, non hanno una fama, un’autonomia e una potenza tali da ricrearsi una carriera professionale. Persone che hanno perso tutto – lavoro, soldi, amici, colleghi – senza aver mai violato una legge, e talvolta neanche alcuna norma sul luogo di lavoro. Ma che magari, prosegue la Applebaum, «hanno violato (o sono stati accusati di aver violato) codici sociali che hanno a che fare con la razza, il sesso, il comportamento interpersonale, o addirittura il senso dell’umorismo, che magari non esistevano cinque o più anni fa. Alcuni hanno fatto errori di giudizio. Altri non hanno fatto proprio niente. Difficile a dirsi». Ma scava nelle storie di chiunque sia stato vittima di una moderna “giustizia della folla” e spesso troverai «incidenti di percorso, che sono interpretati, descritti o ricordati da differenti persone in differenti versioni».

Una generazione di “illiberali di sinistra”?

«The Economist», settimanale tra i più prestigiosi al mondo e Bibbia dei liberal, evita termini come "cancel culture" o "wokeness", conia una nuova espressione e dice che tutto sarebbe nato nei campus universitari americani, a partire dagli anni Dieci. Molti ragazzi, specie nei campus, iniziano a dividere il mondo in bianco e nero, tra gruppi di oppressi e oppressori. Iniziano a considerare le persone non più individui liberi, ma espressione dei gruppi di cui condividono caratteristiche identitarie . Sono gli stessi ragazzi dei campus che Barack Obama bacchettò in uno dei suoi discorsi più memorabili e coraggiosi.

« Persone che fanno cose buone hanno imperfezioni. Le persone contro cui combattete potrebbero amare i loro figli e condividere altre cose con voi. » Sia per un’influenza culturale, che si espande soprattutto tramite i social, sia perché gli stessi laureati iniziano a entrare uno alla volta nel mondo del lavoro, e portano il loro attivismo all’interno delle aziende e delle istituzioni. «Gli illiberali» scrive durissimo «The Economist» «pensano di essere gli eletti per liberare i gruppi oppressi. »

Gli illiberali anziché la libertà privilegiano l’uguaglianza, anziché le pari opportunità a inizio corsa i pari risultati a fine corsa, tenendo conto delle differenze di razza, sesso e così via. E pazienza se c’è da forzare il sistema o da restringere qualche libertà, specie di coloro che sono considerati come appartenenti ai gruppi degli oppressori.

Il manifesto contro la cancel culture

« In questa ideologia, l’educazione non consiste nell’insegnare alle persone il pensiero critico, ma nel rieducarle a cosa pensare. In questa ideologia, il bisogno di sentirsi al sicuro batte il bisogno di parlare sinceramente. In questa ideologia, se non fai il tweet giusto o non condividi lo slogan giusto, tutta la tua vita potrebbe essere rovinata». Il dibattito è ovviamente arrivato anche in Italia, dividendo giornalisti e osservatori.

Da una parte c’è chi considera la cancel culture una realtà anche qui. Dall’altra, chi – come Francesco Cundari in un articolo per Linkiesta – pensa che siamo in un paese in cui «è possibile dire in televisione e scrivere anche sui giornali più blasonati, senza che nessuno se ne scandalizzi e spesso neanche se ne accorga, cose che negli Stati Uniti sarebbero causa di licenziamento». E che le urla alla cancel culture e al «non si può più dire niente» qui siano «solo l’ultimo rifugio dei prepotenti». È vero, siamo un paese meno puritano e più incline al perdono.