Cancel culture, episodio Amy Cooper

Da Tematiche di genere.
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Spieghiamolo prendendo come esempio il video di Amy Cooper, che avrete visto anche voi. Il 25 maggio 2020, stesso giorno dell’omicidio di George Floyd, diventa virale il filmato di una donna bianca col cane a Central Park che, ripresa da un uomo nero, chiama la polizia e inizia a urlare al telefono: «C’è un afroamericano che mi sta minacciando». La narrazione è: donna che ha lasciato il cane senza guinzaglio, quando viene redarguita da un uomo nero, chiama la polizia e si inventa un reato per denunciarlo. Perfetta. Il video esplode sui social, provocando comprensibile indignazione. A questo punto, nelle redazioni online scatta l’allarme: «C’è questa vicenda...» segnala agli altri il giornalista solitamente più smanettone sui social, «riprendiamola». Il giornalista, solitamente quello che l’ha segnalata, fa un primo pezzo in cui semplicemente si riprende “la notizia”. Spesso non fa controlli, non fa verifiche, non controlla ulteriori fonti, non alza il telefono per porre domande. Tutto quello che deve fare è pubblicare il video, scrivere un sunto (del video o dell’accusa di qualcuno verso qualcun altro) e strillare un buon titolo. Quindi, postare immediatamente quel contenuto sui social, affinché faccia più engagement (ovvero produca commenti, like e condivisioni). I tempi sono fondamentali: prima il contenuto verrà postato sui social, più sarà in grado di raggiungere persone che non si sono ancora imbattute nella notizia, e più sarà idoneo a scatenare nuove rabbie (e quindi condivisioni). Il primo pezzo è il test. Un primo contenuto da pubblicare entro i primi dieci minuti dalla segnalazione (massimo venti) che ha l’obiettivo di percepire l’umore della rete. Dopo pochi secondi, redazioni e creator sanno se voi vi state appassionando alla storia: dai vostri like, dai vostri commenti, dai vostri clic sul lancio. Se non vi indigna, la storia finisce lì. Tutto sommato è stato un investimento ragionevole: dieci minuti del tempo di un autore per un test concreto.

Se la storia vi indigna, allora “si sviluppa”. Il creator o la redazione si prefigge come scopo quello di produrre e postare quanti più contenuti nel giro di ventiquattro ore (a volte anche dodici). Basta un po’ di esperienza e di pensiero laterale. E così, possiamo fare come prima cosa un ritratto di lei (“Chi è Amy, la donna che si è inventata l’aggressione”). Poi possiamo continuare con un ritratto di lui (“Chi è Chris, l’uomo che riprendeva”). Esauriti i ritratti, se la storia ancora tira, possiamo allargare il cerchio. Riprendiamo prima le dichiarazioni di solidarietà delle star al protagonista, poi i tweet del “web indignato”. Se siamo ancora più ambiziosi, possiamo aggiungere un pezzo più profondo: un excursus sul rapporto tra donne ricche bianche e razzismo. Infine, magari la mattina dopo, possiamo condire il tutto con il commento di una firma prestigiosa che replica l’indignazione della rete. Alla fine, il caporedattore o il creator chiuderà le sue ventiquattro ore portandosi a casa vagonate di follower o di accessi, da capitalizzare nei confronti dei brand al momento di un contratto o nei confronti del direttore al momento della promozione. La mattina dopo, tutti penseranno già alla nuova polemica.

Ho esagerato tutto volutamente (le redazioni sono ancora uno dei luoghi più intellettualmente vivaci del mondo), solo per far passare il concetto: troppo spesso, nel racconto di vicende come queste, nella rincorsa all’indignazione, noi giornalisti, autori o semplici commentatori, rischiamo di perdere il gusto della complessità. Complessità che deriva solo e soltanto sempre da tre fattori: fonti alternative, senso critico e contesto.

Sulle fonti alternative, vale sempre il detto che la grande giornalista Fiorenza Sarzanini usa per parlare delle fonti giudiziarie: «Se hai una fonte, è lei che controlla te. Se ne hai dieci, sei tu che controlli loro». Perciò, cari utenti, ogni volta che leggete una notizia che vi fa indignare, prima di ricondividerla cercatela su altre fonti.

Sul senso critico, vale il detto: «Quando ti sembra troppo bella per essere vera, non è vera». O meglio, è sempre più complicata di così. Sul caso di Amy Cooper, per esempio, ci sono alcuni dettagli che nessun giornalista inizialmente si è mai preoccupato di raccogliere prima di sparare la notizia acriticamente.

  • Primo fatto: l’uomo che filmava (il nero) si chiama Chris Cooper. È un osservatore di uccelli. E c’è questa cosa a Central Park. Gli osservatori di uccelli odiano i proprietari che portano i cani a fare i bisogni, perché spaventano i volatili. Chris Cooper è un tipino piuttosto polemico. È un fatto che se ne va al parco portandosi con sé i croccantini. Quando vede cani non al guinzaglio, li avvicina con i croccantini e inizia a minacciare i proprietari. Ha già due precedenti scontri di questo tipo con altri proprietari.
  • Secondo fatto: quello che vediamo in video non è tutto quello che è successo (non lo è mai). C’è un dopo e soprattutto c’è un prima. Prima che l’uomo iniziasse a registrare col suo telefono, aveva effettivamente minacciato la donna: «Se vuoi chiamare la polizia fallo, ma sappi che allora anch’io farò quel che voglio, e non ti piacerà». Queste parole sono state ammesse davanti alla polizia dallo stesso uomo. Non so voi, ma se fossi stato una donna in mezzo al parco, davanti a un uomo che mi dice una frase del genere a pochi metri da me, mi sarei sentito vagamente in pericolo e avrei perso lucidità.
  • Terzo fatto: quando Amy Cooper chiama la polizia, presumibilmente in uno stato di ansia e paura, non c’è campo. Il centralinista del 911, come confermato dalla registrazione, continua a dire alla donna che non sente niente. Anche per questo Amy Cooper ripete continuamente nel video quel messaggio («C’è un uomo afroamericano che mi sta minacciando»), in un crescendo disturbante eppure ora più comprensibile.

Ora. Alla luce di questi fatti il comportamento della donna è totalmente condivisibile? Non necessariamente. Non credo sia neppure compito o aspirazione dei giornalisti pronunciare la sentenza. Ma è loro dovere raccogliere e presentare quanti più fatti possibile, perché diano il contesto e gli strumenti ai lettori (e ai follower) per farsi la loro opinione. Nel caso di Amy Cooper, e in tanti, tantissimi altri casi, quel lavoro non è stato fatto. Perché farlo significava essere a rischio linciaggio della folla dei social, essere tacciati di razzismo o di altro. Perché nell’informazione social non contempliamo dubbi, e chiunque ci porti fatti che ne fanno crescere in noi di nuovi ci sta in effetti distraendo. Forse ci conviene etichettarlo come parte dei cattivi e non ascoltarlo più.