Come funziona il capitalismo della Pietà: differenze tra le versioni

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Le piattaforme spingono contenuti con esperienze personali che possano ispirare un attaccamento emotivo simile alla pietas cattolica in chi sta guardando. Minoranze, disabilità, malattie incurabili : l'utente si sente in dovere di seguire quei profili per elevarsi moralmente nei confronti di se stesso e degli altri. In questo modo, quel profilo guadagna potere commerciale e allo stesso tempo si eleva a dispositivo morale : è inattaccabile perché nessuno si schiererà mai contro a uno dei soggetti preferiti del neoliberismo. La vittima. La malattia, il dolore, il trauma diventano un precetto identitario e una moneta di scambio con i brand che si vogliono posizionare all'interno di un segmento di mercato difficilmente raggiungibile. Le battaglie non sono più collettive ma individuali. Le rivendicazioni, nella maggior parte dei casi, non sono più politiche e sociali, non passano più attraverso processi complessi stratificati socialmente ma sono un "tutto e subito" identificato in uno slogan semplicistico che tutti possono condividere in una story sentendosi parte attiva non facendo letteralmente nulla.


In particolare, secondo Nancy Fraser questo è il risultato di quello che lei stessa ha definito un ossimoro: il "neoliberismo progressista"
Le piattaforme social spingono contenuti con esperienze personali che possano ispirare un [https://www.stateofmind.it/2020/06/attaccamento-disregolazione-emotiva/ attaccamento emotivo] simile alla [https://it.wikipedia.org/wiki/Piet%C3%A0_(teologia) pietas cattolica] in chi sta guardando.


ovvero un'alleanza tra nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ), da un lato, e settori economici "simbolici" di fascia alta e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood), dall'altro. In questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite alle forze del capitalismo cognitivo, in particolare a quello finanziario..
Minoranze, disabilità, malattie incurabili: ''l'utente si sente in dovere di seguire quei profili per elevarsi moralmente nei confronti di se stesso e degli altri.'' In questo modo, quel '''profilo guadagna potere commerciale e allo stesso tempo si eleva a dispositivo morale''': ''è inattaccabile perché nessuno si schiererà mai contro a uno dei <u>soggetti preferiti del neoliberismo</u>''. La '''vittima'''. La malattia, il dolore, il trauma diventano un precetto identitario e una ''moneta di scambio'' con i brand che si vogliono posizionare all'interno di un segmento di mercato difficilmente raggiungibile.  


Questa lettura, portata avanti principalmente da studiosi post marxisti, vede la politica dell'identità come emergente da un momento storico che si oppone allo sviluppo di una politica anticapitalista di massa e, essendo sintomatica di questo fallimento, non può assolutamente generare resistenza ad essa.
Le <u>battaglie</u> non sono più collettive ma individuali. Le rivendicazioni, nella maggior parte dei casi, non sono più politiche e sociali, non passano più attraverso processi complessi stratificati socialmente ma sono un <u>"tutto e subito" identificato in uno slogan semplicistico che tutti possono condividere in una story sentendosi parte attiva non facendo letteralmente nulla.</u>


Surin identifica due momenti fondamentali per la sua ascesa: il primo, è la diffusione della prosperità sotto il fordismo, che ha reso una politica di classe meno indispensabile per i lavoratori, consentendo l'emergere di nuove forme di collettività (il movimento per i diritti civili e le femministe, la pace, ecologia e movimenti di liberazione omosussuale).
In particolare, secondo [https://it.wikipedia.org/wiki/Nancy_Fraser Nancy Fraser] questo è il risultato di quello che lei stessa ha definito un ossimoro: il "[http://www.rifondazione.it/formazione/?p=829 '''neoliberismo progressista''']", ovvero un''''alleanza tra nuovi movimenti sociali''' (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ), da un lato, '''e''' settori economici "simbolici" di fascia alta e basati sui servizi ('''Wall Street, Silicon Valley e Hollywood'''), dall'altro. In questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite alle forze del [https://it.wikipedia.org/wiki/Capitalismo_cognitivo capitalismo cognitivo], in particolare a quello finanziario..


Il secondo, vede invece la diffusione di politiche identitarie un fenomeno americano per eccellenza del secondo dopoguerra, per cui è emerso un nuovo multiculturalismo legato all'attuazione di aggiustamenti strutturali e interventi umanitari guidati dall'Occidente. Ciò è derivato dalla necessità degli Stati Uniti di affermarsi in un contesto di stati indipendenti emergenti in Africa e in Asia e dal processo di internazionalizzazione dell'economia mondiale. In entrambe le interpretazioni, la congiuntura identitaria degli anni Settanta si colloca come distinta da qualsiasi iterazione che possa averla prefigurata; è una rottura storica in cui le articolazioni politiche predominanti hanno detronizzato un'idea più convenzionale di politica di classe.<blockquote>L'esito spesso è quello di imporre un'unica e drasticamente semplificata identità di gruppo, che nega la complessità della vita delle persone, la molteplicità delle loro identificazioni e le influenze trasversali delle loro varie affiliazioni.
Questa lettura, portata avanti principalmente da studiosi post marxisti, vede la [https://it.wikipedia.org/wiki/Politica_identitaria politica dell'identità] come emergente da un momento storico che si oppone allo sviluppo di una politica anticapitalista di massa e, essendo sintomatica di questo fallimento, non può assolutamente generare resistenza ad essa.


Ne consegue che la "lotta" identitaria passa spesso presso dispositivi morali imprescindibili: per essere accolto devi ad esempio utilizzare un certo tipo di linguaggio.</blockquote>Le identity politics sono state duramente criticate anche da Wendy Brown, che sostiene che il presupposto di questi processi di collettivizzazione è l'affermazione iniziale che il gruppo collettivo è oppresso e in qualche modo leso. Brown sostiene infatti che le identity politics creino "Wounded Attachments", cioè un attaccamento alle ferite subite, definendole come identità che vogliono inscrivere nella legge il loro dolore derivante dalla loro differenza rispetto alla borghesia maschile e bianca, riprendendo il concetto di risentimento espresso da Nietzsche per sostenere che le persone oggi hanno perso il loro desiderio di libertà e sono legate alla loro oppressione. Brown avverte che questo approccio politicizza l'identità radicando nuovamente il proprio dolore, e il suo continuo successo dipende dal non superarlo mai; in altre parole, l'identificazione collettiva si fonda su un'esclusione passata piuttosto che sulla capacità di immaginare la futura liberazione.<blockquote>A livello social questo è estremamente palese: profili che quotidianamente lucrano su malattie e oppressioni, in un cortocircuito che alterna la narrazione del trauma al codice sconto per invogliare all'acquisto.</blockquote>Dello stesso parere è Yasmin Nair, un'attivista e scrittrice queer afroamericana, founder del collettivo editoriale queer Against Equality. Il concetto del dolore e dell'oppressione viene ampliato, parlando di “trauma porn” e di come, specialmente membri della comunità BIPOC, abbiano bisogno di avvalorare le loro posizioni e richieste di riconoscimento attraverso narrazioni dolorose di traumi, abusi e sofferenze per essere considerati soggetti legittimi, sottolineando come questa isteria narrativa sia sostenuta anche dai media.
Surin identifica due momenti fondamentali per la sua ascesa:  


La scrittrice sostiene inoltre di essere "sicura che sia legato in qualche modo a questa proliferazione di identità che si modellano sul Web, ma penso anche che in qualche modo il soggetto neoliberista perfetto stia diventando il soggetto traumatizzato, il soggetto del trauma". Il corollario, nei movimenti, è una cultura basata sulla confessione del proprio trauma individuale, che richiede che venga condivisa una certe dolorosa esperienza personale per soddisfare una richiesta di autenticità che di fatto però soffoca le dinamiche organizzative, non riuscendo a creare le condizioni per istanze solidali e di resistenza,<blockquote>La lotta è diventata una mera vetrina in cui incorniciarsi per avere potere mediatico, morale e sociale. Quanti profili seguite che hanno iniziato col parlare del proprio trauma per poi finire a fare marchette?</blockquote><blockquote>Riversare tutto il male e l'ignoranza addosso a fantasmatici Altri ci permette di negare la nostra complicità nelle reti oppressive planetarie.</blockquote>Quello che si può osservare, infatti, non è un impegno quotidiano a portare avanti delle rivendicazioni collettive quanto, piuttosto una narrazione egoriferita, costantemente costruita all'interno della propria bolla di consenso, che vive ogni critica alle proprie idee come un attacco ad personam, polarizzando di fatto qualsiasi possibilità di uno scontro dialettico costruttivo con chi la pensa diversamente, in quanto l'esperienza personale diventa l'espediente inattaccabile attraverso il quale mostrare il proprio punto di vista.
* il primo, è la <u>diffusione della prosperità</u> sotto il fordismo, che ha reso una politica di classe meno indispensabile per i lavoratori, consentendo l'emergere di nuove forme di collettività (il movimento per i diritti civili e le femministe, la pace, ecologia e movimenti di liberazione omosessuale).


Di fatto, l'attivismo e, in particolare, il proprio asse di oppressione, diventano un prodotto svenduto alle aziende che vengono considerate in questo capitalismo della pietà come degli alleati che permettono alle minoranze una maggiore rappresentazione all'interno del mondo virtuale, monetizzando attraverso processi di brand activism.
* Il secondo, vede invece la diffusione di politiche identitarie un <u>fenomeno americano</u> per eccellenza del secondo dopoguerra, per cui è emerso un nuovo multiculturalismo legato all'attuazione di aggiustamenti strutturali e interventi umanitari guidati dall'Occidente. Ciò è ''derivato dalla necessità degli Stati Uniti di affermarsi in un contesto di stati indipendenti emergenti in Africa e in Asia e dal processo di internazionalizzazione dell'economia mondiale.''
 
In entrambe le interpretazioni, la congiuntura identitaria degli anni Settanta si colloca come distinta da qualsiasi iterazione che possa averla prefigurata; è una rottura storica in cui le articolazioni politiche predominanti hanno detronizzato un'idea più convenzionale di politica di classe.<blockquote><u>L'esito spesso è quello di imporre un'unica e drasticamente semplificata identità di gruppo, che nega la complessità della vita delle persone,</u> la molteplicità delle loro identificazioni e le influenze trasversali delle loro varie affiliazioni.
 
<u>Ne consegue che la "lotta" identitaria passa spesso presso dispositivi morali imprescindibili: per essere accolto devi ad esempio utilizzare un certo tipo di linguaggio.</u></blockquote>Le identity politics sono state duramente criticate anche da [https://it.wikipedia.org/wiki/Wendy_Brown Wendy Brown], che sostiene che <u>il presupposto di questi processi di collettivizzazione è l'affermazione iniziale che il gruppo collettivo è oppresso e in qualche modo leso.</u>
 
Brown sostiene infatti che le '''identity politics creino''' "[https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/21565503.2018.1472019?journalCode=rpgi20 Wounded Attachments]", cioè '''un attaccamento alle ferite subite, definendole come identità''' che vogliono inscrivere nella legge il loro dolore derivante dalla loro differenza rispetto alla borghesia maschile e bianca, <u>riprendendo il concetto di risentimento espresso da Nietzsche per sostenere che le persone oggi hanno perso il loro desiderio di libertà e sono legate alla loro oppressione.</u>
 
Brown avverte che questo approccio politicizza l'identità radicando nuovamente il proprio dolore, e il suo continuo successo dipende dal non superarlo mai; in altre parole, l'identificazione collettiva si fonda su un'esclusione passata piuttosto che sulla capacità di immaginare la futura liberazione.<blockquote>A livello social questo è estremamente palese: profili che quotidianamente lucrano su malattie e oppressioni, in un cortocircuito che alterna la narrazione del trauma al codice sconto per invogliare all'acquisto.</blockquote>Dello stesso parere è [[wikipedia:Yasmin_Nair|Yasmin Nair]], un'attivista e scrittrice queer afroamericana, founder del collettivo editoriale Queer Against Equality. <u>Il concetto del dolore e dell'oppressione viene ampliato</u>, parlando di “trauma porn” e di come, specialmente membri della comunità BIPOC (Black, Indigenous and People of Color), <u>abbiano bisogno di avvalorare le loro</u> <u>posizioni e richieste</u> di riconoscimento <u>attraverso narrazioni dolorose</u> di traumi, abusi e sofferenze <u>per essere considerati soggetti legittimi</u>, sottolineando come questa isteria narrativa sia sostenuta anche dai media.
 
La scrittrice sostiene inoltre di essere "sicura che sia legato in qualche modo a questa <u>proliferazione di identità che si modellano sul Web, ma penso anche che in qualche modo il soggetto neoliberista perfetto stia diventando il soggetto traumatizzato, il soggetto del trauma</u>".
 
Il corollario, nei movimenti, è una cultura basata sulla confessione del proprio trauma individuale, che richiede che venga condivisa una certe dolorosa esperienza personale per soddisfare una richiesta di autenticità che di fatto però soffoca le dinamiche organizzative, ''non riuscendo a creare le condizioni per istanze solidali e di resistenza'',<blockquote>'''La lotta è diventata una mera vetrina in cui incorniciarsi per avere potere''' mediatico, morale e sociale. Quanti profili seguite che hanno iniziato col parlare del proprio trauma per poi finire a fare marchette?</blockquote><blockquote>'''Riversare tutto il male e l'ignoranza addosso a fantasmatici Altri (deresponsabilizzazione, gli altri sono i cattivi) ci permette di negare la nostra complicità nelle reti oppressive planetarie.'''</blockquote>Quello che si può osservare, infatti, <u>non</u> è un <u>impegno quotidiano a portare avanti delle rivendicazioni collettive</u> <u>quanto, piuttosto una narrazione egoriferita, costantemente costruita all'interno della propria bolla di consenso, che vive ogni critica alle proprie idee come un attacco ad personam,</u> '''polarizzando''' di fatto qualsiasi possibilità di uno scontro dialettico costruttivo con chi la pensa diversamente, in quanto l'esperienza personale diventa l'espediente inattaccabile attraverso il quale mostrare il proprio punto di vista.
Di fatto, l'<u>attivismo</u> e, in particolare, il proprio asse di oppressione, diventano un prodotto svenduto alle aziende che vengono considerate in questo capitalismo della pietà come degli alleati che permettono alle minoranze una maggiore rappresentazione all'interno del mondo virtuale, <u>monetizzando attraverso processi di [https://it.wikipedia.org/wiki/Brand_activism brand activism]</u>.

Versione delle 11:49, 26 giu 2022

La riflessione è presa dalle storie di @serenadoe__ su instagram


Le piattaforme social spingono contenuti con esperienze personali che possano ispirare un attaccamento emotivo simile alla pietas cattolica in chi sta guardando.

Minoranze, disabilità, malattie incurabili: l'utente si sente in dovere di seguire quei profili per elevarsi moralmente nei confronti di se stesso e degli altri. In questo modo, quel profilo guadagna potere commerciale e allo stesso tempo si eleva a dispositivo morale: è inattaccabile perché nessuno si schiererà mai contro a uno dei soggetti preferiti del neoliberismo. La vittima. La malattia, il dolore, il trauma diventano un precetto identitario e una moneta di scambio con i brand che si vogliono posizionare all'interno di un segmento di mercato difficilmente raggiungibile.

Le battaglie non sono più collettive ma individuali. Le rivendicazioni, nella maggior parte dei casi, non sono più politiche e sociali, non passano più attraverso processi complessi stratificati socialmente ma sono un "tutto e subito" identificato in uno slogan semplicistico che tutti possono condividere in una story sentendosi parte attiva non facendo letteralmente nulla.

In particolare, secondo Nancy Fraser questo è il risultato di quello che lei stessa ha definito un ossimoro: il "neoliberismo progressista", ovvero un'alleanza tra nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ), da un lato, e settori economici "simbolici" di fascia alta e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood), dall'altro. In questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite alle forze del capitalismo cognitivo, in particolare a quello finanziario..

Questa lettura, portata avanti principalmente da studiosi post marxisti, vede la politica dell'identità come emergente da un momento storico che si oppone allo sviluppo di una politica anticapitalista di massa e, essendo sintomatica di questo fallimento, non può assolutamente generare resistenza ad essa.

Surin identifica due momenti fondamentali per la sua ascesa:

  • il primo, è la diffusione della prosperità sotto il fordismo, che ha reso una politica di classe meno indispensabile per i lavoratori, consentendo l'emergere di nuove forme di collettività (il movimento per i diritti civili e le femministe, la pace, ecologia e movimenti di liberazione omosessuale).
  • Il secondo, vede invece la diffusione di politiche identitarie un fenomeno americano per eccellenza del secondo dopoguerra, per cui è emerso un nuovo multiculturalismo legato all'attuazione di aggiustamenti strutturali e interventi umanitari guidati dall'Occidente. Ciò è derivato dalla necessità degli Stati Uniti di affermarsi in un contesto di stati indipendenti emergenti in Africa e in Asia e dal processo di internazionalizzazione dell'economia mondiale.

In entrambe le interpretazioni, la congiuntura identitaria degli anni Settanta si colloca come distinta da qualsiasi iterazione che possa averla prefigurata; è una rottura storica in cui le articolazioni politiche predominanti hanno detronizzato un'idea più convenzionale di politica di classe.

L'esito spesso è quello di imporre un'unica e drasticamente semplificata identità di gruppo, che nega la complessità della vita delle persone, la molteplicità delle loro identificazioni e le influenze trasversali delle loro varie affiliazioni. Ne consegue che la "lotta" identitaria passa spesso presso dispositivi morali imprescindibili: per essere accolto devi ad esempio utilizzare un certo tipo di linguaggio.

Le identity politics sono state duramente criticate anche da Wendy Brown, che sostiene che il presupposto di questi processi di collettivizzazione è l'affermazione iniziale che il gruppo collettivo è oppresso e in qualche modo leso.

Brown sostiene infatti che le identity politics creino "Wounded Attachments", cioè un attaccamento alle ferite subite, definendole come identità che vogliono inscrivere nella legge il loro dolore derivante dalla loro differenza rispetto alla borghesia maschile e bianca, riprendendo il concetto di risentimento espresso da Nietzsche per sostenere che le persone oggi hanno perso il loro desiderio di libertà e sono legate alla loro oppressione.

Brown avverte che questo approccio politicizza l'identità radicando nuovamente il proprio dolore, e il suo continuo successo dipende dal non superarlo mai; in altre parole, l'identificazione collettiva si fonda su un'esclusione passata piuttosto che sulla capacità di immaginare la futura liberazione.

A livello social questo è estremamente palese: profili che quotidianamente lucrano su malattie e oppressioni, in un cortocircuito che alterna la narrazione del trauma al codice sconto per invogliare all'acquisto.

Dello stesso parere è Yasmin Nair, un'attivista e scrittrice queer afroamericana, founder del collettivo editoriale Queer Against Equality. Il concetto del dolore e dell'oppressione viene ampliato, parlando di “trauma porn” e di come, specialmente membri della comunità BIPOC (Black, Indigenous and People of Color), abbiano bisogno di avvalorare le loro posizioni e richieste di riconoscimento attraverso narrazioni dolorose di traumi, abusi e sofferenze per essere considerati soggetti legittimi, sottolineando come questa isteria narrativa sia sostenuta anche dai media.

La scrittrice sostiene inoltre di essere "sicura che sia legato in qualche modo a questa proliferazione di identità che si modellano sul Web, ma penso anche che in qualche modo il soggetto neoliberista perfetto stia diventando il soggetto traumatizzato, il soggetto del trauma".

Il corollario, nei movimenti, è una cultura basata sulla confessione del proprio trauma individuale, che richiede che venga condivisa una certe dolorosa esperienza personale per soddisfare una richiesta di autenticità che di fatto però soffoca le dinamiche organizzative, non riuscendo a creare le condizioni per istanze solidali e di resistenza,

La lotta è diventata una mera vetrina in cui incorniciarsi per avere potere mediatico, morale e sociale. Quanti profili seguite che hanno iniziato col parlare del proprio trauma per poi finire a fare marchette?

Riversare tutto il male e l'ignoranza addosso a fantasmatici Altri (deresponsabilizzazione, gli altri sono i cattivi) ci permette di negare la nostra complicità nelle reti oppressive planetarie.

Quello che si può osservare, infatti, non è un impegno quotidiano a portare avanti delle rivendicazioni collettive quanto, piuttosto una narrazione egoriferita, costantemente costruita all'interno della propria bolla di consenso, che vive ogni critica alle proprie idee come un attacco ad personam, polarizzando di fatto qualsiasi possibilità di uno scontro dialettico costruttivo con chi la pensa diversamente, in quanto l'esperienza personale diventa l'espediente inattaccabile attraverso il quale mostrare il proprio punto di vista.

Di fatto, l'attivismo e, in particolare, il proprio asse di oppressione, diventano un prodotto svenduto alle aziende che vengono considerate in questo capitalismo della pietà come degli alleati che permettono alle minoranze una maggiore rappresentazione all'interno del mondo virtuale, monetizzando attraverso processi di brand activism.